Questa non è una pipa, aveva dichiarato il pittore surrealista René Magritte in una sua famosa opera del 1929. E questo, nonostante possa sembrarlo, non è teatro d’avanguardia, rilanciava il critico d’arte Giovanni Carandente a proposito di Work in progress, lo spettacolo dello scultore Alexander Calder da lui curato nel 1968 per il teatro dell’Opera di Roma.
Quando il sipario dipinto si apre su una scena astratta e cominciano a risuonare le musiche (registrate) di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi e Bruno Maderna si fa prima a dire cosa Work in progress non è. Non è opera e non è balletto, non è un concerto e non è una pièce teatrale. E nonostante sia il 1968 non è neanche un happening. Però è teatro: è “la proiezione, sulla scena di un teatro, del mondo magico entro cui muove e agisce l’arte di uno dei più grandi scultori del ventesimo secolo”, scriveva Carandente.
Le opere di Calder sono oggetti e lui si definisce ingegnere. Sulla scena di Work in progress, i suoi mobiles e stabiles sono vivi: si muovono animati da macchinisti-burattinai ben visibili. Sono oggetti ma non sono macchine: nella migliore tradizione surrealista hanno qualcosa di organico, di biologico: sono forme di vita. Come lo sono il mimo che agita la sua bandiera rossa sulla cima di una piramide (sembra uscito da una tavola di Moebius!) e i ciclisti che animano una delle scene più belle di questo onirico circo bio-meccanico. Eppure non è avanguardia: è teatro musicale espanso.
C’è un sipario che si alza (anzi, ce ne sono sei, tutti dipinti da Calder), uno spazio scenico ben distinto dallo spazio occupato dal pubblico e ci sono suoni, musiche e movimenti. Work in progress è una complessa scultura teatrale, un tentativo di allargare i confini di quello che noi intendiamo per teatro musicale. E se vi sembra strano trovarvi ad applaudire un mucchio di dischi colorati sospesi con dei fili di ferro si vede che non siete mai stati a un concerto dei Kraftwerk, un’esperienza teatrale molto simile a quella immaginata da Calder, soprattutto nel finale in cui gli artisti sono sostituiti da manichini.
Rimettere in scena a più di cinquant’anni di distanza Work in progress significa misurarsi con una forma particolare di nostalgia. La nostalgia per il futuro. Il mondo teatrale di Calder e le bellissime musiche che lo accompagnano ci parlano di un tardo novecento ancora moderno, propulsivo. L’arte di Calder è pervasa da una fiducia assoluta nella forza purificatrice dell’astrattismo e dei sogni sommersi del surrealismo. Era il 1968: l’11 marzo andava in scena Work in progress al Teatro Costanzi e il 3 giugno Valerie Solanas sparava a Andy Warhol. Mentre a Roma andava in scena il sogno di una modernità già antica, a New York neoavanguardia e controcultura si disfacevano e ci preparavano a un’idea di futuro caotico e ingovernabile che oggi ci sembra l’unica possibile.
Quando, cinquant’anni dopo, l’Opera di Roma ha chiesto all’artista-regista sudafricano William Kentridge di creare un nuovo spettacolo che facesse da pendant al lavoro di Calder, la nostra idea di futuro è molto diversa. E Kentridge, con la sua passione per la cultura classica, decide di rievocare la figura della Sibilla che, con i suoi confusi vaticini, diventa un simbolo dell’incertezza e dell’incontrollabilità del tempo che fluisce.
Waiting for the Sibyl, con musiche composte ed elaborate da Nhlanhla Mahlangu e Kyle Shepherd, si sviluppa in sei quadri, in simmetria con il lavoro di Calder. Sei quadri per altrettanti sipari dipinti da Kentridge con gesti decisi, sferzate nere e suggestive videoproiezioni. Anche Kentridge mette in scena pittura e scultura, ma lo fa aggiungendo l’elemento umano, una straordinaria compagnia di cantanti e danzatori sudafricani. Se la scena di Calder è sospesa in un’atmosfera di sogno, quella di Kentridge è affollata di suoni, di cartacce che volano e di invocazioni umane. L’indovina (nelle proiezioni appaiono rapidi schizzi delle sibille michelangiolesche della Cappella sistina) viene interrogata ansiosamente dai mortali, spaventati dal futuro incerto. Lei scrive i suoi vaticini su foglie di quercia che il vento sparge ovunque, su cartacce riciclate, su migliaia di inafferrabili foglietti volanti. Le sue profezie sono casuali e vaghe come i bigliettini dei biscotti della fortuna cinesi e seguono l’andamento di un algoritmo il cui funzionamento è ignoto a noi semplici utenti registrati.
La quiete arriva solo alla fine con una rivelazione, tanto terribile quanto consolante. L’unica certezza è la nostra fine: in qualunque punto della vita ci troviamo l’unica cosa che possiamo fare è “cominciare a morire”. Ma con grazia, con intelligenza e armonia. È questo il punto di fuga comune ai due lavori messi in scena a Roma: i mobiles di Calder a un certo punto nel tempo smetteranno di muoversi e raggiungeranno la stasi. Proprio come succederà a noi mortali, che affannosamente chiediamo alla sibilla quando arriverà il nostro momento.
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