C’è qualcosa di surreale nell’andare a teatro a vedere uno spettacolo che si è già visto in diretta tv solo tre giorni prima. Eppure, assistere alla seconda recita della Tosca che ha aperto la stagione della Scala si rivela un’esperienza piena di sorprese e di riflessioni su come si sta evolvendo la fruizione dell’opera lirica.
Questo Puccini super filologico diretto da Riccardo Chailly, con cast stellare e messa in scena massimalista di Davide Livermore, per una serie di coincidenze si è trasformato in un evento mediatico con pochi precedenti nel mondo dell’opera. Quasi tre milioni di spettatori l’hanno seguita in tv e il lungo applauso che ha accolto il presidente Mattarella ha fatto notizia prima ancora che l’orchestra entrasse in buca. La copertura sui social network è stata capillare: i canali della Scala mandavano video dietro le quinte, e quelli della Rai seguivano Tosca come se fosse stata una partita. Da questo evento è anche uscito un meme: la buffa smorfia di Anna Netrebko (la protagonista) quando si è accorta di aver sbagliato una battuta nel secondo atto. Gli applausi finali poi hanno fatto registrare un altro record: 15 minuti di ovazione per orchestra e cantanti.
“Questo dimostra che l’Italia è ancora il paese del melodramma e l’opera è un elemento fondamentale dell’identità di questo paese”, ha commentato il sovrintendente della Scala Alexander Pereira. In realtà c’è molto di più di una pura e vagamente populistica questione identitaria: questa Tosca dimostra che il teatro d’opera cammina con le sue gambe senza bisogno di particolari espedienti per attirare un fantomatico nuovo pubblico.
La Tosca di Chailly/Livermore è uno spettacolo imponente, pieno di movimento e di scenografie rotanti, ci sono anche trovate un po’ eccentriche qua e là, ma non sono stati fatti tentativi di semplificare, attualizzare o proporre sovrastrutture di senso. Siamo nella Roma papalina dell’anno 1800: Sant’Andrea della Valle, palazzo Farnese e castel Sant’angelo sono ben riconoscibili, anzi la loro dimensione monumentale viene enfatizzata.
La scenografa Margherita Palli, in una famosa messa in scena di Luca Ronconi del 1997, aveva realizzato una scena tra il cubista e l’espressionista, in cui i monumenti romani venivano scomposti, quasi a sottolineare la perversione psicologica di quest’opera che faceva entrare il melodramma italiano nel novecento. Alla Scala, nel 2019, Tosca torna a essere spettacolone popolare, drammone tradizionale con vari tocchi horror. La segreta in cui viene torturato Cavaradossi si apre come una macabra casa di bambola e Tosca si prende tutto il tempo quando si tratta di pugnalare Scarpia e vederlo “soffocare nel sangue”. In scena c’è tutto quello che ci deve essere ed è tutto abbastanza realistico: coltelli, bicchieri, posate, panieri, gioielli e tutta la chincaglieria religiosa del Te deum che chiude il primo atto.
Solo gli affreschi viventi di palazzo Farnese, che sembrano una videoinstallazione di Bill Viola, appaiono un po’ pretestuosi, a differenza dei bei costumi di Gianluca Falaschi che si permettono il lusso di uscire dal didascalico per parlare una lingua più contemporanea. I cappottoni degli sgherri di Scarpia hanno macchie rugginose e molto materiche, Tosca indossa un abito stile impero turchese che degrada verso il rosso sangue e Scarpia, nella scena del ricatto sessuale a Tosca, porta una veste da camera damascata sempre aperta, tra Harvey Weinstein e la scena del can-can in Salò di Pasolini.
Il regista Davide Livermore non ha ceduto a nessuna tentazione di esplicitare il #MeToo. La prevaricazione e l’abiezione di Scarpia, che obbliga Tosca a brindare con lui mentre fa torturare il suo amato, è tutta nel libretto: “Via, bella signora sedete qui. Volete che cerchiamo insieme, Tosca, il modo di salvarlo?”. E anche la modernità è tutta nella musica, Tosca (andata in scena per la prima volta a Roma nel 1900) è davvero un’opera di cerniera tra ottocento e novecento, e la versione senza tagli di Riccardo Chailly lo dimostra senza che per forza entrino in scena riferimenti troppo telefonati al ventesimo secolo.
È interessante che questa Tosca così mediatica sia anche così fieramente teatrale più che televisiva. Anche in televisione ci veniva continuamente ricordato che quello che vedevamo era teatro: i cambi di scena, le macchine sempre in movimento e i piccoli intoppi di una prima. E questo è fondamentale perché la vera natura novecentesca di Tosca è nel suo essere, in tanti punti, teatro nel teatro. Floria Tosca è una cantante e un’attrice, e dunque Anna Netrebko è una diva al quadrato: è una diva che fa la parte di una diva. Quando deve spiegare a Cavaradossi che sarà fucilato per finta, gli dice come deve cadere: “Ma stammi attento di non farti male! Con scenica scienza io saprei la movenza”. Anche il Te deum del primo atto, che ricorda molto la sfilata di moda ecclesiastica in Roma di Fellini, è teatro nel teatro, caricatura di una chiesa connivente con gli aguzzini.
E pensare che nell’ormai lontano 1992, per realizzare una Tosca popolare e televisiva si era pensato di far uscire l’opera dal teatro. Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca è stato un progetto gigantesco, voluto dal regista Andrea Andermann, in cui l’opera veniva cantata, in diretta, da Sant’Andrea della Valle, palazzo Farnese e castel Sant’angelo seguendo, ora per ora, lo svolgersi del dramma. In particolare per il terzo atto, il pubblico televisivo si era dovuto svegliare all’alba per assistere alla fucilazione di Cavaradossi (Plácido Domingo) e al suicidio di Tosca (Catherine Malfitano). L’orchestra, che suonava invece in teatro, era diretta da Zubin Mehta, la regia teatrale era di Giuseppe Patroni Griffi e la fotografia, morbidissima e molto oleografica, era di Vittorio Storaro. L’operazione ebbe successo e per un momento si è pensato che “live film” di questo tipo potessero essere il futuro dell’opera lirica. Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca, pur nella sua unicità, era ancora un’operazione profondamente anni ottanta, visivamente non così lontana dall’Otello cinematografico di Franco Zeffirelli. Erano tentativi in buona fede di svecchiare l’opera, di renderla più vicina al cinema o alla tv senza snaturarla.
Tosca che abbiamo visto alla Scala invece capovolge questo assunto: l’opera lirica può diventare evento mediatico e mainstream anche rimanendo saldamente ancorata al mondo teatrale. In un ecosistema fatto di streaming in alta definizione (pionieristico in questo senso il lavoro del Covent Garden di Londra), di piattaforme streaming dedicate alla musica classica (Idagio) e di nebulizzazione di un pubblico ormai globale, è evidente che gli spettatori non vadano più considerati come una mandria da blandire e da indirizzare, ma come una galassia molto complessa e variegata, composta da persone prontissime ad appassionarsi a un drammone in musica di 120 anni fa.
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