Un amico mi ha scritto: “Toni Morrison è morta”. Sono triste, stordito. Mi vengono in mente delle frasi: “È morta la più grande scrittrice di tutti i tempi. Non potrà mai più ridere”. Su internet leggo: “È immortale”, ma questa menzogna mi irrita. Nessuno è immortale. Lei non è più qui, non scriverà più, ora siamo senza di lei. E basta.

L’ho incontrata solo una volta e non lo dimenticherò mai.

La Casa della letteratura a Oslo mi aveva invitato a tenere una conferenza per un ciclo di incontri dove uno scrittore parlava di un altro scrittore. Quando mi hanno chiesto di chi volevo parlare, ho risposto subito: “Toni Morrison”. In seguito Morrison ha letto il testo che avevo scritto su di lei. Ci siamo scritti e abbiamo deciso che un sabato avrei pranzato da lei, nella sua casa a Grand View, a pochi chilometri da New York. Per giorni non ho pensato ad altro.

Quel sabato sono arrivato davanti alla porta di casa sua, sulla riva del fiume Hudson, in uno di quei piccoli sobborghi americani che non si possono neanche definire dei paesini. Avevo preso un taxi da New York. Durante tutto il tragitto avevo provato una specie d’angoscia, quella di non essere all’altezza, alla sua altezza. Una donna mi ha aperto la porta e mi ha accompagnato in salotto, dove Toni Morrison era già seduta sul divano. Ho visto il suo volto per la prima volta. Lei ha sorriso e mi ha detto con una voce grave e profonda: “Piacere di conoscerla, signor Louis”. Non ho più avuto paura. Mi ha chiesto cosa volevo bere e io ho risposto con una domanda: “Lei cosa beve?”. Ha alzato le spalle: “Vodka”. Ho detto: “Con qualcosa dentro?”, e lei ha riso: “No, liscia, ovviamente”. Ho riso con lei: “Allora prenderò lo stesso”.

Oltre Faulkner
Abbiamo parlato di letteratura, soprattutto di William Faulkner e James Baldwin. Mi ha detto che molti statunitensi che criticano Faulkner non lo capiscono davvero, che è assurdo ridurlo solo alle sue dichiarazioni razziste. Al contrario lei pensava che si dovesse tenere conto del suo razzismo per superare quello che aveva scritto, e che questo non le impediva di ammirarlo.

Abbiamo parlato del bel libro di Édouard Glissant Faulkner, Mississippi, in cui l’autore analizza il razzismo di Faulkner e mostra allo stesso tempo come Faulkner, con la sua poetica, la sua scrittura, il suo rinnovamento della tragedia, sia stato capace di creare strumenti e pensieri che possono servire a mettere in discussione ogni forma d’oppressione, di potere, ogni idea di legittimità. Ascoltandola pensavo che Toni Morrison non solo aveva superato Faulkner, ma lo aveva reso possibile.

Mi ha raccontato anche dei suoi soggiorni da James Baldwin nel sud della Francia e ha esclamato: “Era la persona più divertente che abbia mai conosciuto! Faceva continuamente battute!”. Li ho immaginati, una accanto all’altro, che ridevano a lungo, molto a lungo.

Nella conferenza alla Casa della letteratura avevo cercato di mostrare che i romanzi di Toni Morrison, in particolare Prima i bambini e Amatissima, ci permettono di fare un’analisi radicale ed efficace del potere e della violenza.

Il gesto di Sethe è la violenza dello schiavismo che si prolunga attraverso il suo corpo

Amatissima è la storia di Sethe, una schiava che un giorno fugge dalla casa dov’è costretta a vivere. Se ne va, corre nelle foreste, sfida i rovi e le trappole, attraversa i fiumi. Riesce a scappare e a rifugiarsi in una piccola città, ma gli schiavisti la trovano. Quando i bianchi arrivano per catturarla, si nasconde all’interno di una baracca con i figli. In quel momento avviene la tragedia che sta al centro del romanzo: sentendo gli uomini avvicinarsi, Sethe uccide una delle figlie tagliandole la gola.

In Amatissima si capisce che il gesto di Sethe non è una violenza che lei contrappone alla violenza degli schiavisti e neanche una violenza che le serve per proteggersi dalla violenza degli schiavisti, ma è la violenza dello schiavismo che si prolunga attraverso il suo corpo. I responsabili della morte della bambina sono i bianchi schiavisti, sono loro che dovrebbero essere condannati. Il libro di Toni Morrison va oltre la domanda che di solito ci si fa in politica: “È legittimo rispondere alla violenza con la violenza?”, perché la violenza di Sethe non è una risposta alla violenza degli schiavisti ma è la violenza dello schiavismo, la sua continuazione, la violenza che i potenti hanno inoculato nel corpo di Sethe con la paura, la minaccia, la morte; in altre parole i responsabili sono i potenti. Il potere fa circolare la violenza come una specie di flusso, da un corpo a un altro, come una corrente elettrica. Amatissima lo dimostra con più forza, bellezza ed energia di qualunque altro romanzo.

Il paradiso censurato
Il giorno in cui ho incontrato Toni Morrison le ho detto che leggendo Amatissima si potrebbe legittimamente pensare, su un piano completamente diverso, che se un manifestante bruciasse un’auto durante una rivolta dovrebbe essere il governo – che ha creato il contesto politico violento – a essere considerato responsabile del gesto; dovrebbe essere il governo a pagare i danni causati all’auto, poiché è il governo che ha il potere di fare o disfare un contesto violento, come gli schiavisti avevano fatto con Sethe. Lei ha sorriso e ha detto: “Non sai mai a cosa potrà servire un libro che hai scritto”.

In un secondo momento abbiamo parlato di politica e di come i suoi libri mi avessero spinto a riconsiderare alcune cose. Lei mi ha suggerito di andare a vedere un quadro appeso nella stanza accanto. Mi ha incoraggiato sorridendo: “You will like it”, ti piacerà. Mi ha guidato con la voce e mi sono trovato di fronte a una lettera incorniciata. La lettera la informava che il suo libro Paradiso era stato vietato nelle prigioni del Texas; precisava che il romanzo conteneva “informazioni di natura razziale” che agli occhi di “qualsiasi persona ragionevole erano state scritte al solo scopo di comunicare informazioni volte a provocare scompiglio nelle prigioni, attraverso atti come scioperi o rivolte”.

Lei ha riso, ancora una volta. “Can you imagine? Ti rendi conto? Questo paese è talmente razzista!”. Ho capito che la sua risata era una forma di vendetta contro il mondo, un modo per far sapere al potere che non avrebbe avuto la meglio su di lei, e che lei avrebbe continuato a combatterlo senza subirne le conseguenze. Una volta in una celebre intervista in televisione ha detto: “Non sono una vittima, mi rifiuto di essere una vittima”.

Una vita quasi normale
Mi ha raccontato di un viaggio. Attraversando gli Stati Uniti, aveva incontrato una comunità autonoma, formata da persone che erano scappate dalla società statunitense razzista per vivere in modo autogestito e autorganizzato. All’entrata del perimetro dove viveva la comunità c’era un manifesto con scritto qualcosa come: “Come and be prepared”, venite e siate pronti. Credo – ma non ne sono più sicuro – che mi avesse detto che quel be prepared significava che i nuovi arrivati nella comunità dovevano portare i loro averi per metterli in comune. A quel punto si era chiesta: “Questa gente scappa dalla società americana e la prima cosa che fa è stabilire una regola, un avvertimento, be prepared. Potremo mai sfuggire a tutto questo?”.

Il pomeriggio proseguiva e noi eravamo al quarto o quinto bicchierino di vodka. Per via dell’alcol l’atmosfera era diventata più rilassata, e ridevo di più e più facilmente. In quel momento mi ha detto che non capiva la nuova tendenza della letteratura a scrivere di sé, della propria vita. È stata l’unica volta in tutta la giornata trascorsa insieme in cui non sono stato d’accordo con lei. Mi ha detto gentilmente: “Nel tuo caso, scrivere di te è un modo per scrivere del mondo, ma la maggior parte di quelli che scrivono di sé non fanno altro che scrivere di sé”. Il suo complimento mi ha toccato, ma le ho detto che non mi sembrava un problema scrivere di sé e solo su di sé, perché nessuna esperienza è unica, e ogni cosa che viviamo è stata vissuta o sarà vissuta da altri. Le ho detto che proprio nell’autobiografia vedevo la possibilità per un rinnovamento della letteratura. Lei mi ha risposto: “Non siamo costretti a essere d’accordo su tutto”, e abbiamo riso di nuovo.

È arrivato suo figlio. Era tornato dal negozio dove aveva comprato l’orologio che lei gli aveva chiesto. Ha gridato dalla porta: “Ho l’orologio!”, e lei ha risposto: “Hai trovato quello rosa? È il più bello”. Poi abbiamo passato mezz’ora a impostare il suo orologio. Lo so che è sciocco, ma ero commosso nel vedere una donna così grande fare qualcosa di così banale. Ho pensato che il mondo intero avrebbe dovuto assistere alla scena, perché la letteratura può essere una cosa che intimorisce e forse gli scrittori dovrebbero mostrare di più la loro vita quotidiana in modo che la scrittura faccia meno paura, che una vita di scrittura appaia per quello che è, cioè una vita quasi normale. Forse le persone si sentirebbero più autorizzate a scrivere.

In cerca di una risposta migliore
Ricordo la prima domanda che mi ha fatto quel giorno: “Mi chiedo come sia possibile e perché un giovane bianco, francese e omosessuale s’interessi tanto a una donna nera, americana, eterosessuale e di una generazione così diversa”.

La mia risposta è stata: “Non solo perché hai scritto i più importanti libri sul razzismo, ma anche perché i tuoi libri analizzano talmente a fondo i meccanismi della violenza che permettono a chiunque abbia vissuto l’oppressione –donne, lgbt, poveri – di riconoscersi nelle tue parole”. Ho trovato la mia risposta goffa e ancora oggi cerco una risposta migliore. Vorrei che questa evocazione di ricordi non finisse mai. Quando sono andato via ero ubriaco per la vodka bevuta. Ero preoccupato di essere rimasto troppo a lungo, di non essermi reso conto dello scorrere del tempo.

Mi ha dedicato una copia di L’occhio più azzurro, le ho allungato una Bic ma lei mi ha risposto: “Ah no, non con questa”. E ha preso una stilografica. Mi ha chiesto che cosa stavo leggendo. Il giorno prima avevo incontrato il mio amico Ocean Vuong, avevo il suo libro nello zaino e gliel’ho dato. Mi ha parlato della sua editrice in Francia che apprezzava molto, Dominique Bourgois. Mi ha proposto di leggere le righe iniziali del romanzo che stava scrivendo. Mi ricordo di una prima frase corta, incisiva, un po’ come l’attacco di Prima i bambini, “Non è colpa mia”. Un giorno scriverò meglio e più a lungo su come i suoi libri hanno cambiato la letteratura.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Édouard Louis è uno scrittore francese, autore di Chi ha ucciso mio padre (Bompiani 2019). Questo articolo è uscito sull’Observer. Sarà al festival di Internazionale a Ferrara il 6 ottobre per un dialogo con lo scrittore malese Tash Aw, moderato da Igiaba Scego.

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