Forse nemmeno l’interessato si aspettava che il 2017 fosse l’anno di Lorenzo Mattotti. Eppure è proprio quello che sembra profilarsi nell’ambito del fumetto.
In primavera l’uscita del graphic novel Ghirlanda (edizioni Logos), scritto insieme al suo complice di sempre Jerry Kramsky, che segna il suo pieno ritorno al fumetto dopo oltre dieci anni, nella leggerezza della fiaba malgrado la monumentalità della foliazione.
In contemporanea c’era stata l’ampia e quasi maestosa esposizione a villa Manin, a Passariano, in provincia di Udine, dove si è ripercorsa con una scelta unica di pezzi la dimensione dell’oscurità così tipica del suo lavoro. L’allestimento di grande livello è stato affiancato da una mostra al museo d’arte moderna e contemporanea di Udine dedicata ai suoi primi lavori. La mostra è ora a Bologna all’accademia di belle arti, fino al 29 novembre, come prologo al festival di BilBolBul che si terrà a fine novembre.
Il tutto accompagnato a sua volta dal volume La realtà è strabica (Gaspari editore) che riprende uno dei primi lavori lunghi di Mattotti, Alice Brum Brum, opera ormai quasi mitica quanto introvabile, prima incursione nel colore e prima collaborazione con Kramsky che venne pubblicata nel 1977.
Infine, il magnifico libro d’immagini sequenziali Blind, da poco uscito sempre per Logos, che apre con un colpo da maestro una collana dedicata ad arte e disabilità. E subito dopo la notizia del palmarès della 51° edizione edizione di Lucca Comics & Games Heroes, che assegnava a Ghirlanda il premio del miglior romanzo a fumetti pubblicato quest’anno in Italia.
Il ritorno alle origini, del fumetto e non, è stato anche un riparo dagli eventi del mondo esterno
Raggiungiamo Mattotti a Bologna per l’inaugurazione della mostra dedicata ai suoi primi lavori e, seduti in un bar di piazza Maggiore, gli chiediamo d’emblée quale effetto fa la vittoria del Gran Guinigi per Ghirlanda. “È evidente che mi fa molto piacere. Penso che ci fossero però altri miei libri precedenti che l’avrebbero meritato altrettanto. In passato avevo ricevuto dei premi collaterali che mi erano parsi un po’ come dei contentini, un premio per l’illustrazione, per il Pinocchio, le scenografie, cose del genere, ma non invece un vero premio a quello che amo di più e cioè il fumetto. Mi sentivo un po’ preso in giro, mai veramente accettato”.
Eppure è ormai tanto tempo che è celebrato come autore di fumetti rivoluzionario, soprattutto dalla critica internazionale. Il suo ritorno al fumetto, a quasi quindici anni di distanza dal Rumore della brina, è un ritorno alla dimensione primigenia dell’infanzia, della fiaba, della parabola. Inevitabile che sia dedicata a Moebius e alle sue (non)storie imprevedibili e ai poetici Mumin della svedese Tove Jansson, perfetto incrocio tra fumetto popolare e fumetto d’autore, tra favola e poesia, tra innocenza e consapevolezza.
Questo ritorno alla fonte, alle origini (del fumetto e non) con i Ghir, gli omini bianchi un po’ ippopotami e un po’ Barbapapà del mondo di Ghirlanda, che ha richiesto diversi anni di lavoro e ha subìto diverse interruzioni, è stato anche un riparo dagli eventi del mondo esterno. “Sicuramente mi hanno influenzato. Però allo stesso tempo era anche un mondo a parte, dovevo restare nella bolla in cui vivevano questi personaggi”, conferma Mattotti. C’è stato però il rischio che diventasse davvero una nuova opera dai rivoli inconcludenti. “Certe volte ci bloccavamo, c’è stato un momento in cui ci siamo bloccati dopo circa 180-200 pagine. A un certo punto la storia era diventata di mille pagine perché dovevamo seguire un personaggio e poi un altro ancora…”. Poteva essere ancora più lungo… “Sì, certo”, annuisce sorridendo. Perché il viaggio iniziatico che fa il personaggio di Hyppolyte è anche un po’ quello degli autori. Mattotti mi parla di “blocchi, nodi” da risolvere non dissimili da quelli che deve affrontare il protagonista.
Il racconto oscilla tra la libertà totale delle forme narrative e grafiche di Moebius e il desiderio di raccontare una fiaba metaforica con il sapore della parabola, ma riflette anche le oscillazioni di Hyppolyte su quali strade intraprendere, su come rapportarsi ai continui ostacoli che incontra. “Il viaggio in cui Hyppolyte si perde è stato uno dei momenti più belli. Il lasciarsi andare all’improvvisazione, al labirinto mentale, alle visioni. È il momento in cui veramente mi sono divertito un sacco”. Mattotti non dice “molto” ma dice proprio un “sacco”, con un improvviso guizzo di lessico giovanile.
Se accetta volentieri l’osservazione che si tratti di “un fumetto ludico” è subito chiara la sua finalità di risvegliare lo sguardo puro, lo sguardo-bambino, quindi la dimensione interiore. Un ritorno alla primordialità in un senso quasi intimo. A quella dell’infanzia e dunque a quella del fumetto stesso, alla sua purezza di nascita. “Sì alla sua ingenuità, al divertimento di creare liberamente l’immaginario, di lasciarsi andare come due bambini senza troppo porsi il problema del significato. Poi il significato c’è sempre perché viene fuori comunque”. Alla maniera dei surrealisti, lasciando lavorare l’inconscio. “Assolutamente. Siamo sempre figli della contemporaneità e quindi anche se non vuoi, più esci dalla realtà e più la realtà ci sta dentro”.
Aggiungo che a volte la trasfigurazione è il modo migliore. “È la forza del fumetto. Kramsky e io abbiamo ritrovato questo piacere che avevamo agli inizi. Quegli inizi che esponiamo proprio alla mostra”. Gli chiedo che effetto fa rivedere esposti i primi lavori e ammette che si tratta di “un grande piacere”. Al di là di certe ingenuità, di certe insicurezze, di certi errori. Si tratta di “una mostra per metà inedita”. Storie rifiutate ma che si rivelano forti ancora oggi. Predominano l’ambientazione metropolitana, l’emarginazione, un senso delle atmosfere molto intenso, come se si volesse trasmettere il significato della realtà attraverso di esse. “Erano lavori sperimentali e poetici a cui tenevo tantissimo. Perché in quel periodo non potevi essere poetico, non potevi essere dolce, c’era il cinismo di un certo tipo di pensare. L’ironia e il sarcasmo funzionavano, ma l’ironia e la dolcezza erano fuori moda”.
Sintesi di decenni di lavoro è Blind. Sottotitolato Dal buio alla luce, concepito con la Cdm Italia Onlus, un’organizzazione umanitaria internazionale “impegnata nella prevenzione e cura della cecità e disabilità nei paesi del sud del mondo”, si apre con una frase di Edmond Rostand: “È di notte che è bello credere alla luce”. “Una frase molto bella”, sottolinea Mattotti, “che abbiamo scelto per cercare di esprimere questo senso di mistero, di ricchezza che c’è durante la notte. Nella stanza buia. Collegandosi anche alle fantasie dei bambini, a quando, spenta la luce nella stanza, s’incomincia a fantasticare, a viaggiare nel nostro immaginario. Mi sembra bella anche per vedere in maniera positiva questo momento, che invece può essere interpretato come molto oscuro e pauroso. Mentre quel che è oscuro e pauroso costituisce un arricchimento della nostra conoscenza, delle nostre emozioni. Per noi vedenti il buio è lo spazio per l’immaginazione, per sentimenti e sensazioni rielaborate come una porta del fantastico. Per i non vedenti è invece lo spazio della realtà totale. Si fanno un’immagine più precisa della realtà: il buio per loro è un tentativo continuo di vedere la realtà. Con il tatto, il suono, eccetera. Al contrario, per noi vedenti il buio è quasi l’uscire dalla realtà, il perdersi nell’immaginario totale. Il ricrearci una nuova realtà, un nuovo immaginario. Quasi un meccanismo opposto”.
Gli faccio notare che ne ha tirato fuori un’opera che apre nuove visioni, portando come alla luce un albero che unisce tutti i rami. Quelli dei suoi ultimi lavori in bianco e nero, Chimera, Hansel e Gretel, Oltremai, Ghirlanda, con quelli dei lavori a colori, come Fuochi o La zona fatua. Un libro che pare come una Terra di mezzo, per restare tra terre mitiche. E lui non dissimula felicità per il risultato dell’unione di questa dualità. “Sono riuscito, credo per la prima volta, a mischiare queste tecniche in una sola sequenza narrativa. Questa possibilità di mischiare tecniche diverse, codici diversi, linguaggi diversi in un’unica sequenza narrativa mi affascina molto. Non saprei dire se sono già pronto o meno a rischiare, mi sembra però che sia una delle mie prossime frontiere da affrontare”. Come il protagonista di Ghirlanda, Mattotti cerca sempre nuove frontiere.
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