Appena si dissolve il biancore di una luce quasi accecante si rivela Amin, un bel ventenne in bicicletta che pedala leggero, come su una nuvola, libero come il vento. Un inizio con la camera che segue frontalmente il ragazzo in bicicletta, con musica classica a forte intensità, quella di Mozart, che tornerà più avanti (insieme a Bach). Una musica celebrativa.
Amin è ripreso con un delicato movimento avvolgente, creando quasi la sensazione che l’ambiente circostante, lo sfondo, giri intorno a lui: centralità del protagonista e in estensione dell’essere umano oppure sottile presagio di un circolarità del tempo, di una palude temporale da cui sarà difficile uscire? Forse tutto questo insieme. Si tratta di una sequenza d’enunciazione. In senso sia letterale sia metaforico, perché enuncia il film sul piano formale come nel suo senso profondo.
Mektoub, my love: canto uno è quasi un come eravamo e soprattutto un come stavamo. Il primo capitolo di quello che nelle intenzioni del regista, Abdellatif Kechiche, dovrebbe diventare una trilogia, un lungo romanzo del tutto visivo, è ambientato infatti nell’estate del 1994 in una zona del sud della Francia. Uno stato della mente molto più libero che ci rendeva a sua volta molto più liberi nel modo d’essere, nelle relazioni umane. Senza l’11 settembre o gli attentati in Francia del 2015, senza l’ossessione per la sicurezza. Solitamente sono gli anni sessanta o, al limite, gli anni settanta, i decenni sinonimo di libertà e leggerezza. Kechiche cambia la prospettiva.
Subito assistiamo a una scena d’amore sensuale, luminosa e carnale. Corpi belli ma non perfetti, nessuna inquadratura, però, di organi genitali, contrariamente ad altri film di Kechiche. E il ragazzo, delicato e fine come scopriremo, si fa voyeur. Il cinema è voyeuristico (l’esempio classico è La finestra sul cortile di Hitchcock), sguardo, qui più che mai. Lungo tutto il film si parla tanto di cose di tutti i giorni, nessun dramma, al massimo qualche malanno grave di un parente. Niente a che vedere con l’intimismo o l’introspezione. Con incredibile senso dell’esattezza e della naturalezza nel costruire comportamenti e dialoghi che rivelano caratteri, strutture social-familiari, modi di vedere e pensare. Nel ritratto che ne fa Kechiche, la comunità di origini nordafricane appare molto lontana dagli stereotipi.
Cinema puro
Quello di Kechiche è un cinema puro, un cinema come flusso continuo per restituire il flusso della vita. Sguardo d’artista e sguardo della camera nel cinema sono la stessa cosa e Kechiche lo fa capire bene. Un lungo film con tanti uomini e donne, ma è solo apparenza. A ben vedere è un film di donne, anzi, dominato dalle donne, giovani e più mature ma tutte splendide, al di là del fatto che le donne siano centrali nella filmografia del regista. Un carnevale, una girandola, un otto volante continuo di conversazioni e dialoghi tra donne e uomini o solo tra donne, mai, però, tra soli uomini.
Amin (interpretato dall’esordiente Shaïn Boumedine), sceneggiatore agli esordi, vive a Parigi ma è tornato a trovare la famiglia, la sua comunità di pescatori e allevatori. In questo film corale, Amin è un ragazzo anomalo, timido, estremamente gentile, introverso, osservatore attento. Le donne si interessano facilmente a lui, ci provano, ma lui si ritrae. Come se fosse impaurito o come se volesse stare tranquillo oppure come se non avesse ancor ben chiara la propria identità sessuale. Tornerà a Parigi ma essendo una persona autentica, rispetto agli artifici di certa intellighenzia della capitale, gli piace la semplicità, apprezza la gente comune, come la parte finale sancirà chiaramente.
Si succedono due sequenze chiave. La prima è quella lunga del parto degli agnellini. Una meraviglia, un incanto. Cosa di più naturale in un film che cerca il naturale andato perduto, in ogni cosa, anche la più minuta. Il naturale, inteso cioè alla Rossellini o Pasolini, ma senza scimmiottarli. Quella sequenza è dell’ordine della Rivelazione, con la r maiuscola, sempre in senso rosselliniano. Declinata, però, verso gli animali. Stacco immediato su una sequenza ancora più lunga in discoteca. La modernità apparentemente vacua, il fuoco fatuo dopo il sacro. Il turbinio ludico dopo la staticità della contemplazione, anche se portatrice di futuro, di un movimento rinnovato della vita. La gioia della vita, la vita nella sua purezza c’è anche qui, celebrata più che mai.
Amin resta in disparte, come altre volte balla appena, non riesce ad amalgamarsi, refrattario all’omologazione e al contatto fisico. Forse, però, percepisce che in quel luogo dove tanti corpi si ammassano freneticamente per esibire la loro superficie, passa anche qualcos’altro. Ancora una volta, il movimento della vita. Ecco cosa sembra percepire Amin osservando tutto, in un misto di fascinazione dolce e serena ma che porta nello sguardo come un velo di malinconia percepibile nell’intero film.
Amin osserva con una fascinazione dolce e serena, ma nel suo sguardo c’è un velo di malinconia che si percepisce in tutto il film
Amin ha difficoltà a divenire attore, figurarsi primo attore come invece si sentono un po’ gli altri personaggi maschili. La consapevolezza di questo limite, o pregio, sembra lavorarlo dal di dentro. Eppure è proprio lui ad avere il potenziale maggiore da esprimere, quello che rispetto agli altri è vicino a una maggiore Verità con la maiuscola, intesa anche qui in senso rosselliniano. Ma non la esibisce. Amin è umile, è un apostolo del bello e del giusto proprio per la sua timidezza, proprio per essere in parte irrisolto.
“Dio è la luce del mondo”, dice il Vangelo di Giovanni. “Luce su Luce. Dio dà la sua luce a chi vuole Lui”, Corano. Queste parole compaiono sullo schermo nella sequenza d’apertura non appena la luce bianca si dissolve e appare Amin. Da notare che nella traduzione italiana, nella frase del Corano dio diventa Allah. Ovviamente si tratta di dio in arabo, ma nel film il regista aveva come esplicitamente equiparato il dio cristiano e quello musulmano.
Religiosità laica, cioè rosselliniana. Religiosità insita nella bellezza di tutte le cose, anche qualora non esistesse un’istanza superiore. O anche qualora esistesse, sarebbe un dio che lancia dei segnali, lasciando noi tutti liberi di andare verso il massimo del bene o il massimo del male. Religiosità dell’importanza dell’umano, non solo dell’essere umano.
“Questa luce è la libertà di pensiero, la libertà che rivendico”, ha dichiarato Kechiche. Se siamo positivi, se siamo posseduti dall’amore. Ecco cosa dice il cineasta senza retorica. In questo film magnificamente controllato, dando l’impressione di lasciare andare la camera libera come il vento restituisce a noi tutti il sentimento autentico di una libertà – sia interiore sia esteriore – quasi dimenticata. Come nessun altro, ci cura dall’amnesia.
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