Comincia con grandi nomi il festival del cinema di Venezia, anche se non sempre soddisfano le attese. Delude in buona parte Damien Chazelle, molto atteso dopo il successo di La la land. Sorprende invece Yorgos Lanthimos, molto più intenso del solito e meno divorato dal suo estetismo un po’ vacuo. Si conferma il messicano Alfonso Cuarón con un’opera inattesa.

La memoria e il passato, colti in una dimensione più o meno intima, sembrano essere il comune denominatore di tutti i primi quattro film del concorso. Quasi fosse un ripiegamento di sicurezza rispetto a un’attualità sempre più assurda e straripante di negatività, ma forse anche un modo di parlare del presente con più efficacia, usando lo schermo cinematografico come uno specchietto retrovisore.

La noia e la poesia di Il primo uomo
Damien Chazelle con Il primo uomo, che si avvale di Steven Spielberg come produttore esecutivo, è di nuovo insieme a Ryan Gosling. L’attore questa volta è nel ruolo di Neil Armstrong, il comandante della squadra di astronauti che compì il miracolo dell’allunaggio, un personaggio ossessivo che è una costante del cineasta. Chazelle racconta i tentativi, i fallimenti e i gravi lutti che si verificarono durante l’impresa, una storia veramente folle, tanto che ci si chiede fino alla fine come abbia fatto la navicella spaziale a partire e ritornare. Ma quelle sequenze – e ancora di più quelle familiari – sono in gran parte noiose, retoriche, melense, scontate.

Ben più avvincente e umano era Apollo 13, del sottovalutato Ron Howard. Questo cinema non è capace di creare empatia e tantomeno di riattivare la dimensione profonda della memoria, se non quella ancestrale, di cui il cinema di Stanley Kubrick resta un esempio perfetto. Il film di Chazelle, fin dal titolo, sembra invece avere l’intenzione di voler ritrovare una visione pura, quasi primordiale.

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Tuttavia, gli ultimi quaranta minuti di Il primo uomo, quando ci si avvicina all’allunaggio, valgono forse il biglietto. La visione della Luna dal punto di vista degli astronauti, il controcampo sui loro occhi neri che sembrano quasi la faccia oscura del satellite, sono poetici e al tempo stesso inquietanti. Veicolano sia la meraviglia per qualcosa di primigenio sia il terrore verso di essa, il romanticismo degli innamorati e il lupo mannaro. In un silenzio privo di suoni, si esprime il fascino per un’immobilità perenne che ha il sapore della morte.

La grazia di Roma
Roma di Alfonso Cuarón è la storia di un matriarcato imposto dall’immaturità maschile e dell’infanzia del regista a Città del Messico all’inizio degli anni settanta. È il suo primo film in spagnolo dai tempi di Y tu mamá también. Il quartiere della capitale messicana è il teatro di uno splendido ritratto familiare, filmato in bianco e nero digitale, e con una camera che passa in rassegna gli ambienti lateralmente e orizzontalmente, complice anche un formato cinematografico molto ampio – quello del cinema popolare di un tempo e delle sale affollatissime che a un certo punto Cuarón riprende. Una camera che con eleganza e fluidità esplora e seziona continuamente i luoghi, soprattutto gli interni, li abbraccia, anche grazie a un notevole lavoro sulla profondità di campo.

L’abitazione a due piani dove vive questa famiglia gioiosa, rumorosa quanto numerosa, di cui fanno parte anche due cameriere, è esplorata come un’architettura ricca di microstorie. Lo stesso vale per gli esterni. Con eleganza, senza che veramente ce ne accorgiamo, Cuarón inanella microepisodi di vita quotidiana che offrono il ritratto di un’epoca, di persone e classi sociali. Piano piano sposta il centro della narrazione su una della due giovani cameriere rimasta incinta e fa affiorare la brutalità con cui il potere in Messico reprime le istanze democratiche in quel periodo storico: il massacro noto come El Halconazo – durante il quale i paramilitari soffocarono una protesta di studenti, uccidendone circa 120 – è del 10 giugno 1971. È in questo contesto che il ragazzo che ha messo incinta la cameriera è abbandonato da tutti e a sua volta abbandonerà la ragazza. Come altre persone povere è manipolato in funzione antidemocratica da un’ideologia di estrema destra. Una parte del popolo è spinta a scagliarsi contro rivendicazioni che sono a favore del popolo.

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Il privato permette di raccontare al meglio la dimensione storica, e al tempo stesso di parlare in maniera universale e attuale degli ultimi della terra, filtrando tutto attraverso lo sguardo femminile. Perché anche la madre in quella famiglia borghese sarà abbandonata da un padre capriccioso, che al contrario del ragazzo che abbandona la cameriera sembra avere poche attenuanti.

Mischiando continuamente le gerarchie architettoniche e urbanistiche attraverso i movimenti di camera, Cuarón annulla le gerarchie sociali. Chi resta – madre, bambini e domestiche – formerà una sola famiglia. Donne sole, ma unite.

Se Roma non somiglia a nulla di già visto, è però vero che il film avrebbe potuto essere un capolavoro assoluto, ma non lo è. In compenso ha la stessa semplicità, la stessa umanità delle persone che riprende nel fango delle baraccopoli. E ha una qualità rara nel cinema, soprattutto tra quello che oggi cerca di rivolgersi a un pubblico più ampio. La grazia.

L’attualità di La favorita
La favorita di Yorgos Lanthimos è la storia della regina Anna Stuart nell’Inghilterra di inizio settecento. L’estetica del regista greco nel tempo è diventata talmente fredda – come quella di Kubrick, che però era potente e profondo nella costruzione di visioni indimenticabili – da raggiungere una dimensione algida e compiaciuta. Tuttavia, in questo film sembra trovare un equilibrio tra profondità e ispirazione visiva, forza della regia, solidità di contenuto.

La regina Anna – travolta da lutti e dolori personali, con problemi di depressione – è legata alla cortigiana Sarah Churchill (Rachel Weisz), che in pratica governa la corte e il paese al suo posto. Ma a corte arriva la giovane e bella cugina della regina, Abigail Masham (Emma Stone), finita a fare la cameriera dopo la bancarotta della famiglia. Da quel momento comincia una guerra tra le due donne.

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Abigail riuscirà a conquistare la regina e cercherà di prendere il posto di Sarah. Sullo sfondo, la guerra con la Francia che sembra non finire mai, e che genera un forte scontento nelle persone. Sembrano personaggi da romanzo, quasi alla Alexandre Dumas, ma senza epica e declinati al femminile, anche se la lotta per il potere è altrettanto spietata di quella tra uomini.

Ci sono però delle differenze. Malgrado tutto affiorano i sentimenti, e chi si fa portavoce di una politica più saggia non è per forza la più buona. Soprattutto, a causa delle regole che governavano la società di allora, le donne se cadono possono farsi molto più male degli uomini.

Anche in questo film i movimenti di camera sono continui, immersi negli immensi e opulenti saloni e corridoi, sempre verticali. Vanno dritti allo scopo. L’eleganza e la raffinatezza sembrano nascondere la meccanica del potere, questo freddo labirinto della mente maschile che le donne, imprigionate in quella stessa logica maschile dalla quale vorrebbero fuggire, perpetuano malgrado e contro se stesse.

Anche in questo caso, il regista sembra aver scelto una storia del passato per parlare del presente. La regina Anna Stuart si chiede continuamente cosa pensa il popolo, in particolare della guerra con la Francia, e regolarmente le viene nascosto lo stato delle cose. Questo raffinatissimo mondo, sempre distante, rinchiuso nelle sue corti, nei suoi giardini e nei suoi boschi, perde il contatto con la realtà, con gli esseri umani. E si perde a sua volta nell’ossessione di schiacciare e dominare l’altro. Quello che in questi anni ha subìto la Grecia dalla cieca tecnocrazia, ma anche da altri paesi, è appena fuori campo.

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