Dopo sette anni, Roy Paci è tornato con un nuovo disco. Il trombettista siciliano, accompagnato dalla sua band di fiducia, gli Aretuska, ha appena pubblicato Valelapena, un album che mescola i suoni del mondo con la musica italiana, lo ska con il soul, l’Africa con l’India.
Valelapena è stato prodotto dallo spagnolo Dani Castelar, già al lavoro con i R.E.M. e Paolo Nutini, ed è arricchito dalla presenza di Daniele Silvestri, che ha scritto insieme a Paci i testi di due canzoni. Il disco è stato anticipato da due singoli, Tira e Revolution. Roy Paci presenterà le nuove canzoni il 30 settembre al pubblico di Ferrara, in occasione del concerto organizzato da Medici senza frontiere durante il festival di Internazionale.
Da dove nasce il titolo Valelapena?
Il 2016 per me è stato un anno difficile, perché alcuni miei familiari hanno avuto problemi di salute. Volevo lasciarmi alle spalle le sofferenze e ho deciso che avrei scritto una canzone sull’amore come atto rivoluzionario. Il pezzo mi ha dato lo spunto anche per dare il titolo al disco. Valelapena ha avuto una gestazione lunga, perché prima di cominciare le registrazioni mi ero preso una pausa. Dovevo riflettere sul destino del progetto Aretuska, che ormai esiste da vent’anni, stavo cercando nuovi stimoli e nuove idee. Valeva la pena provare, perché è venuto fuori un album diverso, che potrebbe spiazzare qualche ascoltatore.
È un disco un po’ più introspettivo, ci sono anche pezzi meno solari rispetto al passato.
La mia musica non deve solo far ballare la gente, ma anche farla pensare. Per questo ho lavorato su alcuni suoni per rendere più introspettiva l’atmosfera dei brani. Dani Castelar, che ha prodotto l’album, mi ha spinto a sperimentare con la mia voce, tirando fuori la mia timbrica medio grave. All’inizio ero scettico, ma poi ho capito che era la scelta giusta. Ci sono un paio di pezzi un po’ cupi per i miei standard, come Ipocrita, nel quale ho duettato con il cantante australiano Dub Fx.
A livello di influenze musicali, rispetto al solito si sente ancora di più l’Africa, come nel brano d’apertura Makué. Sei d’accordo?
Negli ultimi anni ho frequentato parecchio l’Africa. Questo pezzo è nato dalle mie esperienze in Senegal, in Kenya e in Camerun. Makué racconta in modo ironico la storia di un folletto che si aggira per le township africane e come una specie di super eroe cerca di salvare l’intero continente. Nel mio dialetto macué significa “ma chi è?” e quindi ho voluto giocare sulla lingua. La scena africana in questo momento è molto stimolante. L’anno scorso ho fatto qualche concerto con Bombino e mi sono divertito molto a suonare il suo blues desertico, che a me ricorda quello del grande Ali Farka Touré. Ma a me piace anche la scena angolana, dove si canta in portoghese.
C’è anche un po’ di Asia in questo disco. Nel singolo Revolution i fiati rimandano alla musica indiana. Come ti è venuta questa idea?
La musica indiana mi affascina da sempre. I fiati di quel brano sono ispirati alle bande del Jaipur, quelle che suonano ai matrimoni. Ho fatto spesso concerti con gruppi del Rajastan e ho sempre avuto voglia di mettere questi suoni in un mio disco. Ho provato anche a distorcere le trombe, usando timbriche diverse, per dare quel tipo di suono al finale di Revolution.
Com’è andata la collaborazione con Daniele Silvestri?
Lavorare con lui è come sciare sull’olio. Abbiamo scritto insieme il testo di Tira e quello di No stop ed è stato emozionante. Con lui ci si capisce al volo, tutto viene fuori in modo molto naturale.
Cosa significa per te suonare per Medici senza frontiere?
Da tanti anni Medici senza frontiere cerca di invitarmi e per una serie di motivi non eravamo mai riusciti a fare un concerto per loro. Quest’anno sono felice di regalare la mia esibizione al pubblico di Ferrara. Sarà un concerto energico, con qualche sorpresa e qualche ospite. Suonerò i pezzi nuovi ma anche quelli del passato. Per me è sempre un piacere sostenere una causa in cui credo e dare una mano a un’organizzazione seria e importante come Medici senza frontiere.
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