Slowthai, Nothing great about Britain
Se dieci anni fa ci avessero raccontato che il Regno Unito nel 2019 si sarebbe trovato impantanato in una simile crisi politica ci saremmo fatti una bella risata. E invece eccoci qui. Per fortuna in questi giorni è uscito un disco che fa da antidoto alla Britishness tossica di Boris Johnson e Theresa May.
Ogni album, a modo suo, è un atto politico. E Slowthai, rapper di 24 anni di Northampton che sul viso ha sempre una specie di ghigno beffardo, fa politica anche senza volerlo. La fa semplicemente raccontando la sua storia. È cresciuto senza padre nelle case popolari, è antimonarchico e al referendum sulla Brexit ha votato remain in una città dove ha vinto il leave. Fa politica soprattutto con il suo album d’esordio Nothing great about Britain, un omaggio alla working class britannica, alle persone costrette ad arrangiarsi, perfino a delinquere, per arrivare alla fine del mese. Le persone dimenticate dalla politica, quelle che non vivono nel centro di Londra e si sentono escluse dalla vita pubblica.
Slowthai ai suoi concerti espone la bandiera nazionale, la Union Jack, e contemporaneamente attacca l’estrema destra, un po’ come facevano gli Oasis negli anni novanta. Può permettersi di parlare ai bianchi, perché è bianco, ma non possono dirgli che è razzista perché sua madre (che lui definisce “l’unica vera regina”, mentre insulta Elisabetta II come fosse un novello John Lydon) è nata alle Barbados.
Ma c’è di più, oltre alla politica e ai temi sociali. C’è la musica. Dal punto di vista sonoro, è facile sentire dentro Nothing great about Britain il grime di Skepta, che infatti è ospite nel brano Inglorious, ma anche i The Streets di Original pirate material, i Gorillaz di Damon Albarn o perfino il punk-rap degli Sleaford Mods (Doorman potrebbe essere tranquillamente un loro brano) e l’elettronica dei Prodigy. Ci sono citazioni del cinema pop, da Trainspotting alla serie tv Peaky blinders (nell’ottima Grow up).
A tenere insieme tutte queste influenze c’è il flow aggressivo di Slowthai, che dimostra una notevole capacità di paroliere. Nel finale di Gorgeous, per esempio, in un flusso di coscienza racconta di quando da bambino il suo patrigno, burbero e tossico, lo portò a vedere una partita del Liverpool in treno: gli sembrava un sogno, ma le cose non andarono proprio come voleva. Il patrigno gli aveva detto che aveva comprato i biglietti, ma gli aveva mentito. Dovettero passare tutto il primo tempo della partita a cercarne due ed entrarono solo all’inizio del secondo. È da queste piccole storie quotidiane che nasce la musica di Slowthai. Senza la retorica facile del gangsta rap, con grande autenticità. La rivincita della provincia.
Se volete vedere Slowthai dal vivo, cerchiate sul calendario il mese di novembre: si esibirà in esclusiva italiana al Club To Club di Torino.
Tyler, the creator, Earfquake
Il nuovo disco di Tyler, the creator s’intitola Igor ed è una raccolta di canzoni che vanno oltre l’hip hop. L’artista di Los Angeles stavolta rappa poco. Preferisce cantare, coprendo la sua voce e quella dei tanti ospiti (da Solange a Kanye West) con effetti e distorsioni che rendono l’atmosfera rarefatta, difficile da inquadrare.
Igor è il racconto di una storia d’amore, dall’inizio alla fine. E sembra il lato b del precedente Flower boy. Tra vecchi campionamenti soul e arrangiamenti anni ottanta, Tyler, the creator mette tanta carne al fuoco e raggiunge picchi di intensità notevoli. Earfquake, per esempio, è una via di mezzo tra il Kanye West di My beatiful, dark twisted fantasy e i primi Outkast. I think torna su temi già esplorati in passato, dai problemi mentali alla fantomatica omosessualità di Tyler, che una volta veniva considerato un omofobo e oggi confessa di aver baciato “ragazzi bianchi”.
La seconda parte di Igor è, se possibile, ancora più di difficile lettura rispetto alla prima, ma contiene perle come A boy is a gun e la ballata finale Are we still friends?, registrata con Pharrell Williams. È passata una settimana dall’uscita di Igor e non ho ancora capito se è un capolavoro o solo un buon disco. In entrambi i casi, ovviamente, mi sento di consigliarlo.
Flying Lotus, More (feat. Anderson .Paak)
L’afrofuturismo non passa mai di moda. E una delle persone che in questi anni hanno fatto di più per tenere vivo questo mito è sicuramente il californiano Steven Ellison, in arte Flying Lotus.
Il suo nuovo disco Flamagra è appena uscito ed è la solita raccolta di canzoni sospese tra elettronica, jazz, rap e rnb. Un altro viaggio interstellare che avrà bisogno di tempo per essere assimilato e compreso.
Andrea Laszlo De Simone, Conchiglie
Il torinese Andrea Laszlo De Simone ti frega. Spesso i suoi pezzi fanno pensare a qualcosa di già sentito. “Questo passaggio è preso da un brano, quello da quell’altro” ti viene da dire mentre lo ascolti. Poi a un certo punto ti rendi conto che le canzoni sono così belle e delicate che non te ne importa niente di quello a cui somigliano, vuoi semplicemente godertele.
Per esempio la chitarra acustica dell’attacco di Conchiglie mi faceva pensare a The rip dei Portishead, mentre il finale più a qualcosa dei Midlake. Ma chissenefrega, la canzone è ottima, così come il video. Speriamo che il nuovo album Immensità, che uscirà per la sempre ottima 42 Records a settembre, sia all’altezza del precedente Uomo donna. Le premesse sono incoraggianti.
Bill Callahan, Angela
A giugno, a sei anni di distanza da quel capolavoro chiamato Dream river, uscirà il nuovo album del cantautore di Austin Bill Callahan, intitolato Shepherd in a sheepskin vest. Callahan in questi giorni ha reso disponibile in streaming il primo “lato” del disco, composto da sei canzoni. I nuovi brani vanno sempre più verso lo spoken word. Questa struggente canzone d’amore, Angela, mi ha colpito subito. E come al solito Callahan fa poesia con poche parole messe al punto giusto, come nel verso: “Angela, come le tende dei motel, non ci siamo mai incontrati veramente”.
P.S. Playlist aggiornata, buon ascolto!
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