Premessa
Il 1 giugno 1999 il programmatore Shawn Fanning e l’imprenditore Sean Parker lanciarono Napster, un programma per la condivisione di file. Lì per lì sembrava una cosa da niente, e invece cambiò la storia dell’industria discografica, mettendo in crisi le grandi etichette. In appena due anni di vita (il software sospese le attività nel luglio 2001 dopo una battaglia legale per violazione del diritto d’autore), Napster mandò in tilt il sistema, sdoganando la fruizione gratuita della musica e, grazie alla diffusione sempre più capillare di internet, rese la musica accessibile a una quantità enorme di persone. Da quel momento il modo di ascoltare canzoni, di fare dischi e perfino di organizzare concerti non è stato più lo stesso.

Se si fa un bilancio sulla musica degli ultimi vent’anni, mentre il 2020 si avvicina, non si può che partire da questo aspetto. La rivoluzione digitale ha avuto alcuni effetti immediati e altri più graduali, che si fanno evidenti man mano che passa il tempo. La prospettiva totalmente bianca e occidentale con cui si analizza la musica leggera è ancora dominante, ma si assottiglia ogni giorno di più. Il rock, il grande dominatore del novecento, è ormai un oggetto da museo, come aveva predetto Simon Reynolds nel suo pluricitato saggio Retromania. È ancora in grado di mobilitare grandi quantità di persone, ma ha perso la capacità d’innovare.

La musica nera (in particolare il rap) si è fatta più potente, conquistando un pubblico di giovani bianchi e occupando spazi, per esempio quelli dei festival europei, che prima sembravano irraggiungibili. Il dibattito sulla parità di genere, spinto dalle prese di posizione di molte artiste e dalle scelte coraggiose di alcuni organizzatori dei festival, è più vivo che mai.

Ci sono tanti articoli e libri che affrontano queste questioni in modo serio e approfondito. Dovendone citare solo uno oltre a quello di Reynolds, il pensiero va a Remixing di Jace Clayton, un saggio che affronta l’avvento del digitale come un’opportunità per il pubblico e gli artisti, e non solo come quella terribile catastrofe che ha dominato la narrazione dei mezzi d’informazione.

La classifica che segue (non ha la pretesa di essere esaustiva, ovviamente) non include dischi registrati fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti, ignora il jazz e la musica contemporanea. Sarebbe stato troppo ambizioso coprire tutti i continenti e i generi. Il disco più “antico” è proprio il primo in classifica, Kid A dei Radiohead, che fu pubblicato nell’ottobre del 2000, qualche mese dopo il temuto millennium bug e poco meno di un anno prima dell’11 settembre. I più recenti sono To pimp a butterfly di Kendrick Lamar e Blackstar di David Bowie, usciti nel 2015. Ho creato anche una playlist su Spotify, scegliendo due brani per ogni album.

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La classifica
1. Radiohead, Kid A (2000)
Quando è uscito Kid A, il 2 ottobre del 2000, il rock è invecchiato all’improvviso. Negli ultimi decenni pochi dischi hanno avuto un impatto così forte sulla musica leggera. Per la band le registrazioni di questo album sono state lunghe e sofferte. Dopo le liti e il quasi scioglimento però il gruppo ha registrato una quantità enorme di materiale, talmente tanto da alimentare il disco gemello Amnesiac e parte dei lavori successivi. Per comporre queste canzoni Thom Yorke ha dovuto superare la sindrome del blocco dello scrittore, ha messo da parte la chitarra e si è seduto al piano. Jonny Greenwood invece ha dovuto tirar fuori tutta la sua bravura di arrangiatore e polistrumentista. Kid A, oltre che un capolavoro, è un esempio delle possibilità espressive della voce umana. A tratti Yorke canta parole quasi incomprensibili, ma al tempo stesso non ha mai raggiunto un tale vertice emotivo. Forte dell’onda lunga di Ok computer, l’album ha esordito al primo posto della classifica statunitense: un miracolo, se pensiamo che la band non ha girato neanche un videoclip per promuoverlo.
Brano chiave: Everything in its right place

2. Kanye West, My beautiful dark twisted fantasy (2010)
Kanye West ha cambiato le regole del rap, prima da produttore e poi da artista. È un genio controverso e sregolato, ma ha un talento fuori dall’ordinario. La sua musica ha conquistato prima l’America nera e poi quella bianca, rompendo con gli stereotipi del gangsta rap. E lui ha fatto del campionamento un’arte. Quanti come lui riescono a far entrare nello stesso contenitore i King Crimson e Jay-Z, Pusha-T e Nina Simone? A volte ascoltare i suoi dischi è come entrare dentro una macchina del tempo. Quello che è successo negli ultimi anni, a partire dai suoi problemi di salute mentale, lo ha reso un personaggio ancora più divisivo e incomprensibile, a partire dal sostegno a Donald Trump. Ma questo non può offuscare quello che ha fatto e continuerà a fare quando entra in studio o sale su un palco.
Brano chiave: Runaway

3. Daft Punk, Discovery (2001)
Discovery è uno degli album più importanti nella storia della musica da ballare, un viaggio interstellare attraverso quattordici canzoni perfette. Il duo francese formato da Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo ha trasformato il french touch in una musica globale, tra omaggi alla disco degli anni settanta ed episodi di pop sofisticato. Singoli come One more time e Harder, better, faster, stronger suonano ancora oggi nei club di tutto il pianeta. A partire da questo album tra l’altro i Daft Punk hanno cominciato ad apparire in pubblico come due robot, giocando sull’anonimato. E c’è almeno un altro disco del duo francese, Random access memories, che avrebbe meritato di essere in questa lista.
Brano chiave: Harder, better, faster, stronger

4. Kendrick Lamar, To pimp a butterfly (2015)
Seguendo il solco di Kanye West, ma anche di maestri come Tupac, nel giro di poco tempo Kendrick Lamar si è preso lo scettro di miglior rapper degli Stati Uniti, facendo da ponte tra la vecchia e rendendo orgogliosa la West coast. Alla base del rap di To pimp a butterfly c’è un cuore jazz (il sassofonista Kamasi Washington suona in quasi tutto il disco), ma anche il funk e il soul. Lamar ha un talento cristallino nella scrittura e un flow incredibile. Ha messo in musica la sua vita, contraddizioni comprese, facendo di se stesso una grande metafora dell’America nera. Grazie a lui la questione razziale è tornata in cima alle classifiche di vendita e ha fatto da colonna sonora perfino alle manifestazioni del movimento Black lives matter.
Brano chiave: Alright

5. Portishead, Third (2008)
Il terzo disco dei Portishead è il frutto di una poesia inquietante e misteriosa come un menhir. Non è più il trip hop di Dummy, è una musica che va oltre, verso territori ancora più profondi. La voce di Beth Gibbons ha pochi eguali, per come sa esprimere sofferenza e precarietà. La band britannica ha chiuso la sua carriera (possiamo dire che si sono sciolti, a meno di sorprese clamorose) con questo lavoro. Riascoltandolo a distanza di anni è naturale rimpiangere quello che avrebbero potuto fare fino a oggi, ma al tempo stesso non c’era modo migliore per chiudere il cerchio.
Aggiornamento, 1 novembre: in realtà qualcosa forse si sta muovendo.
Brano chiave: Machine gun

6. David Bowie, Blackstar (2016)
Il testamento sonoro di David Bowie è uscito due giorni prima della sua morte. Ed è sconvolgente pensare che un musicista di 69 anni in gravi condizioni di salute sia riuscito a mettere insieme brani così visionari e ispirati. Accompagnato da un gruppo jazz, con la voce quasi rotta dalla vecchiaia e dalla sofferenza, Bowie ha dato l’ultima zampata, riuscendo quasi a toccare i vertici raggiunti con la trilogia berlinese e con gli altri capolavori degli anni settanta.
Brano chiave: Blackstar

7. Outkast, Stankonia (2000)
Il rap, Atlanta, l’eredità del P-funk di George Clinton: gli Outkast hanno messo insieme questi immaginari, rompendo il duopolio west coast-east coast. Sono stati tra i primi a cantare le trap house e a portare il dirty south, il rap del sud degli Stati Uniti, in testa alle classifiche. Stankonia è il loro disco migliore insieme a Aquemini. Come disse André nel 1995, “The South got something to say”, il sud ha qualcosa da dire.
Brano chiave: Ms. Jackson

8. Burial, Untrue (2007)
La storia della musica elettronica recente passa dall’esordio del solitario producer londinese William Emmanuel Bevan, un altro che ha giocato abilmente con il mito dell’anonimato. Orfano della cultura dei rave, Bevan ha portato la dubstep britannica verso territori nuovi, seguendo anche la lezione di Aphex Twin e dei Massive Attack. Sui campionamenti di questo disco andrebbe scritto un libro: Christina Aguilera e il videogioco Metal Gear Solid nello stesso pezzo sono solo uno dei tanti esempi che si possono fare. Per capire meglio Untrue consiglio di leggere un grande articolo di Simon Reynolds.
Brano chiave: Archangel

9. Lcd Soundsystem, Sound of silver (2007)
Dopo aver imparato bene la lezione di David Bowie e di David Byrne, all’inizio degli anni duemila il musicista, dj e produttore James Murphy ha scatenato la sua creatura, la band newyorchese Lcd Soundsystem, ibrido irresistibile tra punk e musica dance. Se ci fosse una classifica dei concerti più belli degli anni duemila gli Lcd Soundsystem sarebbero sicuramente tra i primi dieci.
Brano chiave: All my friends

10. Fever Ray, Fever Ray (2009)
Uno degli aspetti che ha reso eccezionale la musica del duo svedese The Knife è la sua capacità di manipolare la voce della cantante Karin Dreijer. Per questo i loro pezzi, in particolare quelli di Silent shout, sono stranianti e ipnotici e non somigliano a nient’altro. Lo stesso discorso vale per Fever Ray, il progetto solista di Dreijer tirato fuori a sorpresa nel 2009. Brani più lenti e spazio libero all’introspezione, in una specie di inno al nord glaciale. Un disco mai abbastanza celebrato. Da qui la carriera di Fever Ray è decollata, dando forza anche al suo attivismo per la causa lgbt.
Brano chiave: Keep the streets empty for me

11. The Strokes, Is this it (2001)
Per i rockettari adolescenti degli anni duemila il fulminante esordio degli Strokes è stato una colonna sonora imprescindibile. Undici pezzi, undici melodie inattaccabili e un tributo ai Velvet Underground talmente spudorato da suonare sincero e contagioso. Julian Casablancas e compagni non hanno mai bissato questo disco, ma con Is this it hanno colpito nel segno.
Brano chiave: The modern age

12. Jay-Z, The blueprint (2001)
Forse non è più quello di una volta, forse ormai è oscurato da sua moglie Beyoncé, ma Jay-Z è un gigante dell’hip hop americano e ha segnato l’ultimo ventennio come pochi altri. The blueprint, in parte prodotto da Kanye West e forte dell’ospitata di Eminem, è il suo disco migliore, dove il suono di New York si sente forte e chiaro. A proposito di esclusioni illustri, Watch the throne avrebbe potuto essere tranquillamente in classifica. P.S. I pezzi di The blueprint non sono presenti nella playlist perché Jay-Z non è su Spotify.
Brano chiave: Heart of the city (Ain’t no love)

13. Bruce Springsteen, The rising (2002)
C’è un aneddoto che spiega meglio di molte altre cose la genesi di The rising. Pochi giorni dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001, Bruce Springsteen era in moto. Uno sconosciuto in macchina si è accostato in macchina, ha tirato giù il finestrino e gli ha detto: “Abbiamo bisogno di te adesso”. La sua risposta è tutta in questo album, con quel carico di retorica che sarebbe stucchevole se cantata da chiunque altro e invece nel suo caso risulta sempre sincera e commovente.
Brano chiave: The rising

14. Wilco, Yankee Hotel Foxtrot (2002)
Questo album ha avuto una genesi travagliata e all’inizio è stato rifiutato dalla casa discografica della band, la Reprise. I Wilco hanno deciso di metterlo in streaming gratis sul loro sito e poi hanno firmato con la Nonesuch. Forse la Reprise si mangia le mani ancora oggi, perché i Wilco non hanno mai fatto un album complesso e ispirato come questo. L’introduzione di I am trying to break your heart vale da sola l’intero album, ma il discorso si potrebbe fare per molti altri pezzi, a partire dalla ballata alt country suggerita qui sotto.
Brano chiave: Jesus, etc.

15. M.I.A., Kala (2007)
La stella di M.I.A. ha brillato per poco tempo, giusto lo spazio di un paio di album, ma ha brillato in modo intenso, creando un cortocircuito tra suoni del mondo, elettronica occidental e rap. Mathangi “Maya” Arulpragasam non ha mai nascosto quanto sia stata influenzata dal passato di suo padre, un attivista srilankese di etnia tamil, ma ha saputo far sua anche la tradizione occidentale. Ha cantato temi che sono oggi più attuali che mai: l’immigrazione, i passaporti, il razzismo. Musica impegnata, ma anche sensuale.
Brano chiave: Paper planes

16. Nick Cave & The Bad Seeds, Push the sky away (2013)
Forse questa non è un’opinione molto condivisa, ma Push the sky away è uno dei migliori album di Nick Cave. Il cantautore australiano è riuscito in questo album a mettere d’accordo la sua anima sperimentale con quella più tradizionale. Ha cambiato il suo modo di scrivere, spostandosi dalla musica narrativa verso una scrittura più evocativa. Orfano di Mick Harvey, ma forte del contributo compositivo di Warren Ellis, ha inaugurato una nuova fase della sua carriera, culminata con un altro recente capolavoro: Ghosteen.
Brano chiave: Jubilee street

17. Arcade Fire, Funeral (2004)
La musica degli Arcade Fire ha da sempre a che fare con il ricordo e la nostalgia. I due dischi migliori della band di Win Butler e Régine Chassagne, questo e The suburbs, sono scritti da giovani che hanno dentro di sé l’inquietudine delle persone di una certa età. Gli Arcade Fire si sono presentati come se ci fossero da sempre, regalando grandi canzoni e concerti infuocati. E infatti c’è stato un momento in cui tutti volevano salire sul palco insieme a loro, da David Bowie a Bruce Springsteen.
Brano chiave: Wake up

18. Björk, Vespertine (2001)
Scritto come una specie di terapia distensiva durante la faticosa lavorazione di Dancer in the dark con Lars von Trier, Vespertine è un disco intimo, quasi domestico o, per usare una definizione della sua autrice, “moderna musica da camera”. Björk ha dato il meglio di sé negli anni novanta, ma anche negli anni duemila ogni tanto ha tirato fuori sprazzi di classe assoluta. Vespertine non è Homogenic, ma resta un grande album.
Brano chiave: Hidden place

19. Animal Collective, Merriweather post pavilion (2009)
Negli anni duemila la città di Baltimora ci ha portato almeno due cose speciali: la serie tv The wire e gli Animal Collective. Questo disco della band statunitense è un concentrato di psichedelia elettronica, un’esplosione di gioia e un omaggio accorato al genio di Brian Wilson, ma anche un trionfo dell’estetica indie alla Pitchfork. Poi, come al solito, contano le canzoni e qui dentro ce ne sono tante di alto livello.
Brano chiave: Summertime clothes

20. The White Stripes, Elephant (2003)
La furia e l’inquietudine della chitarra di Jack White, la capacità di scrivere canzoni fatte di poche cose tutte al punto giusto, i ritornelli. White ha messo tutto questo nella sua band, una strana creatura vintage che partendo dal mondo dell’indie è riuscita ad arrampicarsi fino alla cosa più mainstream che ci sia. Bob Dylan, uno che se intende abbastanza, ama molto Ball and biscuit, uno dei brani meno famosi di questo disco, forziere pieno di piccoli tesori.
Brano chiave: Seven nation army

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