“Il linguaggio non è solo un’istituzione sociale o uno strumento di comunicazione, ma anche un elemento centrale nella costruzione delle identità, individuali e collettive (…). Consapevoli che le lingue mutano e si evolvono, proviamo a rendere il nostro linguaggio inclusivo per avere nuove parole per raccontarci e per modificare i nostri immaginari”. Comincia così il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere del movimento femminista Non una di meno. Un impegno che richiama anche noi giornalisti al dovere di scegliere con cura le parole.
Non una di meno ha indetto una grande manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne per il 25 novembre a Roma. Cominciamo dunque col chiederci: abbiamo le parole giuste per definire le donne che hanno subìto violenze? È giusto chiamarle “vittime”? O dovremmo parlare di “sopravvissute”?
L’uso di sopravvissuta al posto di vittima si è fatto strada negli ambienti femministi a cominciare dagli anni settanta e si è affermato sempre di più fino a raggiungere i mezzi d’informazione, soprattutto nei paesi di lingua inglese. Dopo aver definito per anni “vittime” le donne che avevano subìto violenze, un termine scelto anche per guadagnare sostegno alla loro causa, i movimenti femministi hanno sentito il bisogno di sbarazzarsi di questa parola triste e sminuente e hanno cominciato a parlare di “sopravvissute” per evidenziare la volontà delle donne di reagire e di riprendere in mano la loro vita. La parola vittima, spiegano, implica impotenza, passività, e quindi l’idea che la donna abusata sia danneggiata, debole, da compatire, e intrappolata in questa condizione per sempre. Sopravvissuta invece suggerisce uno sviluppo, assegna alla donna un ruolo attivo, trasmette l’idea che sia libera e abbia il controllo della sua vita, e che stia combattendo – a livello giuridico o personale – contro la violenza subita.
La parola ‘vittima’ rischia di cristallizzare in status quella che è una condizione estemporanea
Nelle aule di tribunale tuttavia, poiché lo stupro e la molestia sessuale sono reati, le donne che hanno subìto violenza in genere continuano a essere chiamate “vittime”. D’altra parte, ci sono donne che preferiscono così: non è scontato che tutte siano sempre o debbano sempre essere delle sopravvissute, capaci cioè di reagire o nelle condizioni di farlo.
La Federazione internazionale dei giornalisti (Ifj) invita a scegliere tra i due termini valutando le circostanze. Nel suo decalogo per descrivere in modo corretto la violenza sulle donne, pubblicato nel 2008 e adottato nel 2016 anche dal Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti italiano, si legge: “Le persone colpite da questo genere di trauma non necessariamente desiderano essere definite ‘vittime’, a meno che loro stesse non usino questa parola. Le etichette possono fare male. Un termine che descrive più accuratamente questa realtà è ‘sopravvissuta’”.
In Italia un’indicazione più recente arriva da una nota alla prefazione di Relazioni brutali, di Elisa Giomi e Sveva Magaraggia. Giomi è docente di sociologia della comunicazione e dei media e di media and culture all’università Roma Tre, Magaraggia insegna metodi di ricerca qualitativa all’università di Milano-Bicocca. Il libro, appena pubblicato dal Mulino, è una densa indagine sul modo in cui oggi i mezzi d’informazione, il cinema, la tv, la letteratura e la musica rappresentano la violenza contro le donne e delle donne, ed è dedicato al movimento femminista Non una di meno. “In questo volume”, scrive Giomi, “il termine ‘vittima’ viene utilizzato soprattutto quando l’esito della violenza è stato fatale. Ove possibile, preferiamo ‘donna che subisce/ha subìto violenza’, giacché ‘vittima’ rischia di cristallizzare in status quella che è una condizione estemporanea. Se parliamo del fenomeno in generale, senza riferimenti a casi specifici, impiegheremo ‘vittima/sopravvissuta’, che valorizza la capacità di superare le violenze”.
L’Ifj mette l’accento sull’effetto che le parole possono avere sulle persone di cui parliamo, Giomi e Magaraggia sul tipo di realtà che le parole restituiscono: entrambi i princìpi sono validi per orientarci nelle nostre scelte. Senza mai smettere di interrogare la realtà che abbiamo di fronte.
Le persone non sono solo sopravvissute o solo vittime, possono essere entrambe le cose. “Il problema di essere vittima è che mi sentivo responsabile”, ha detto Asia Argento a Ronan Farrow, l’autore dell’articolo del New Yorker che ha contribuito a svelare gli abusi di Harvey Weinstein. “Perché, se fossi stata una donna forte, gli avrei dato un calcio nelle palle e sarei scappata. Ma non l’ho fatto. Perciò mi sentivo responsabile”.
Chissà se oggi, dopo che le donne di mezzo mondo hanno reagito alle notizie di quegli abusi inondando il web di denunce e storie personali e conquistando uno spazio pubblico senza precedenti, Asia Argento si sente ancora una vittima. La sua determinazione fa pensare più a una sopravvissuta.
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