Fino alla fine degli anni sessanta, la fotografia a colori era usata in particolare nella pubblicità; in un ambito più autoriale era poco apprezzata da critici e fotografi. Così è stato almeno fino all’arrivo di William Eggleston, un pioniere che ha fatto entrare la fotografia a colori nel mondo dell’arte.

Eggleston (1939) ha nobilitato il colore servendosi di un processo di stampa chiamato dye transfer. La tecnica è stata brevettata dalla Kodak negli anni quaranta e già allora era considerata molto costosa. Nel dye transfer i negativi di partenza sono in bianco e nero, e sono stampati in tricromia, attraverso appositi filtri che sviluppano un’ampia gamma di rossi, blu e gialli. Eggleston l’ha scoperta viaggiando nel suo paese, gli Stati Uniti, per la precisione in un piccolo laboratorio di Chicago. Con il dye transfer si ottiene una profondità quasi materica delle immagini e una straordinaria intensità dei colori. La consacrazione ufficiale del colore di Eggleston avvenne nel 1976, quando John Szarkowski organizzò una sua mostra al Museum of modern art di New York.

Ma come tutti i fotografi dell’epoca, Eggleston aveva cominciato a scattare in bianco e nero. Nella grande mostra organizzata in questi giorni dalla National portrait gallery di Londra (aperta fino al 23 ottobre), è possibile conoscere anche questa prima fase, in cui l’autore usava una grande varietà di supporti e formati per esplorare il proprio stile: 35 millimetri, micropellicole da sorveglianza, schizzi e polaroid.

La mostra londinese è specificamente dedicata ai ritratti del fotografo statunitense. “C’è un’idea diffusa su cosa sia un grande ritratto”, racconta il curatore Phillip Prodger, “è come se a un certo punto una scintilla partisse dal soggetto al fotografo e infine allo spettatore, e questa scintilla racchiudesse quelle qualità speciali che definiscono un volto, una persona e ci portano direttamente al centro della sua anima. L’essenza di una vita umana in un attimo, praticamente. Eggleston rifiuta completamente questa visione”. Nonostante dichiari l’influenza su di lui di Henri Cartier-Bresson, per il fotografo una persona non è così diversa da un parcheggio, e il ritratto di un familiare non è diverso da quello di un estraneo.

Eggleston ribadisce da sempre la neutralità e la democrazia del suo approccio, ma ogni sua fotografia si distingue dall’altra. Nell’introduzione al volume The democratic forest (1989), Eudora Welty, scrittrice e fotografa statunitense, afferma che Eggleston riesce a vedere la complessità e la bellezza nell’ordinario: “Le fotografie straordinarie, efficaci, oneste, belle e implacabili hanno tutte a che fare con le nostre vite quotidiane. Riescono a mostrarci la grana del presente, come le venature di un tronco d’albero tagliato… Queste immagini ci parlano del mondo ordinario. E nessun altro soggetto è pieno di implicazioni quanto il mondo ordinario”.

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