L’8 gennaio 1964 Lyndon Johnson, che poco più di un mese prima aver preso il posto di John F. Kennedy alla Casa Bianca, lanciò uno dei programmi più ambiziosi che un presidente degli Stati Uniti abbia mai proposto: la “guerra alla povertà”, una serie di leggi per aiutare decine di milioni di indigenti attraverso sussidi, investimenti sulla scuola, creazione di un sistema di welfare e altro. Fece l’annuncio dal portico di una casa di Inez, in Kentucky, dove viveva Tom Fletcher, un operaio disoccupato, con la moglie e i loro otto figli. “Il nostro obiettivo è una vittoria schiacciante”, disse Johnson.
Cinquantacinque anni dopo il fotografo Matt Black è andato a Inez e ha visitato la stessa casa. Oggi ci vive un uomo che si chiama Harold: “A parte la vernice arancione, l’edificio è uguale a come appare nelle fotografie di quel giorno: gradini di cemento, tetto in lamiera, le tendine appuntate alle finestre, il barometro accanto all’ingresso. Sul portico dalle assi imbarcate ci sono due sdraio e un vecchio divano, insieme a un tavolino pieghevole con tre pacchi di sigari, due secchi (uno pieno di lattine e l’altro a metà) e una catasta di legna da ardere. Dentro il linoleum che riveste il pavimento si sta sollevando ed è riattaccato agli angoli con delle puntine da disegno. Harold siede sotto il portico, con indosso un paio di jeans neri, una maglietta azzurra e delle scarpe da trekking. Di Johnson dice: ‘Ci ha mentito, proprio come tutti gli altri’”.
Nel 2015 Black ha cominciato un viaggio che nei cinque anni seguenti lo avrebbe portato a visitare ogni angolo del paese, percorrendo 160mila chilometri attraverso 46 stati. Anche il suo progetto, come quello di Johnson, era enorme: costruire la mappa definitiva della povertà negli Stati Uniti. Il risultato è un libro straordinario, appena pubblicato da Contrasto, che si inserisce in una lunga e ricca tradizione di racconto del disagio e dell’emarginazione: i contadini disperati degli anni trenta raccontati in Furore di John Steinbeck, nelle canzoni di Woody Guthrie e nelle foto di Dorothea Lange; gli afroamericani dell’America segregata degli anni sessanta raccontati da Gordon Parks; gli operai traumatizzati dalla crisi industriale dei primi anni duemila, che compaiono in romanzi come Ruggine americana di Philipp Meyer.
L’obiettivo di Black era percorrere tutto il paese senza uscire da quella fascia socioeconomica che il governo definisce “di povertà concentrata” (cioè le comunità dove almeno un quinto della popolazione vive sotto la soglia di povertà), per dimostrare che negli Stati Uniti la miseria è molto più diffusa di quanto si immagini e, di conseguenza, è anche molto più vicina alle città e ai sobborghi più ricchi del paese. In un periodo in cui i politici occidentali tendono a parlare dei poveri con violenza oppure con retorica – in ogni caso sempre in modo astratto – le fotografie di Matt Black sono come un bagno di realtà.
E ci ricordano come la povertà, e le eventuali soluzioni, siano intrecciate ai grandi problemi degli Stati Uniti di oggi. Il carcere e quello che viene dopo, per esempio. Racconta Black in uno dei preziosi taccuini di viaggio che accompagnano le immagini: “Ken è uscito di prigione nel 2014. Non è riuscito a trovare un lavoro stabile, così vive a casa della figlia e dorme sul pavimento della camera da letto del nipote. ‘Prendo 7 dollari e 25 all’ora. Ho 48 anni e il tempo non gioca a mio favore. Quando leggono pregiudicato si girano dall’altra parte. Ovunque, in qualsiasi campo, sono visto come un possibile fallimento. Dicono che ho pagato il mio debito con la società, ma quando sarò davvero libero?”.
O il degrado ambientale: “Arnulfo vive in una baracca costruita da sé sulle sponde del New River, un fiume che attraversa il confine con il Messico. Pare che le sue acque siano le più inquinate d’America: la puzza di fogna e sostanze chimiche si sente a decine di metri di distanza. Di tanto in tanto Arnulfo passa il confine con il Messico: ‘Di là sono un uomo ricco, qui sono un senzatetto’”.
O il peso storico delle discriminazioni contro le minoranze. Dalla riserva dei nativi americani a Wind River, in Wyoming: “La riserva esiste da prima della nascita dello stato. La dispersione scolastica è arrivata al 40 per cento. Gli adolescenti hanno il doppio delle probabilità di commettere suicidio. Il tasso di criminalità è sette volte più alto di quello nazionale. La disoccupazione è all’86 per cento. Un uomo mi dice: ‘Siamo prigionieri di guerra. Ci stanno ancora strangolando. Nella cultura della povertà, si fa la guerra per nulla, la gente si litiga la spazzatura’”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it