Erano le otto del mattino a Ramallah quando, tre settimane dopo l’inizio dell’occupazione israeliana della Cisgiordania nel giugno 1967, uscii di casa armato di macchina fotografica e cominciai a pedalare verso Gerusalemme. Avevo appena compiuto sedici anni e volevo catturare con le immagini i danni materiali che la guerra aveva provocato lungo la strada tra le due città.
Quella che percorrevo era un’arteria secondaria a due corsie costruita nel 1901, in epoca ottomana, e priva di interesse militare. Durante la prima guerra mondiale gli alleati diretti a Gerusalemme non erano passati da lì ma più a ovest, attraverso il villaggio di Nebi Samuel, con la sua imponente moschea che riuscii a scorgere a più riprese lungo la strada.
Qualche settimana prima, il 6 giugno, la brigata del colonnello Moshe Yotvat, entrata in Cisgiordania da Latrun, aveva conquistato l’aeroporto di Gerusalemme senza combattere. Gli israeliani si erano poi diretti verso quella che credevano fosse la strada per Ramallah. Per essere sicuri, avevano ordinato a un anziano palestinese di fargli da guida. Intanto la conquista di Gerusalemme procedeva nella parte occidentale della città.
La sera di quel giorno maledetto l’esercito entrò a Ramallah con un battaglione di carri armati. Forse per nostra fortuna, non aspettarono d’indebolirci con un bombardamento. Percorsero in lungo e in largo la città varie volte sparando in tutte le direzioni. Eravamo a casa, rannicchiati in un angolo, convinti che i soldati potessero irrompere da un momento all’altro e ucciderci tutti. Mentre aspettavamo, mio padre disse: “Sparano perché l’esercito israeliano vuole verificare se c’è resistenza”. Mi chiesi come lo sapesse e mi sentii combattuto. Volevo che gli spari finissero e al tempo stesso il pensiero demoralizzante della sconfitta mi avviliva.
Nessuno rispose e gli spari finirono. Non c’era stata resistenza. Nel giro di poche ore l’esercito israeliano portò a termine la conquista della mia città. Tre settimane dopo, su quella strada stretta, pedalavo da solo verso Gerusalemme, che era stata conquistata il giorno dopo la caduta di Ramallah.
Durante i precedenti diciannove anni di controllo giordano sulla Cisgiordania, quella strada era stata l’unico collegamento tra Ramallah e Gerusalemme. In quel periodo Gerusalemme Est offriva agli abitanti dei villaggi del nord ospedali specializzati, buoni ristoranti e centri commerciali. Quando ero piccolo prendevamo l’autobus 18 fino a Gerusalemme. Era ricoperto di avvisi: “Non sputare”, “Non parlare all’autista”, “Non fumare shisha” (una sigaretta pestilenziale, riempita di un’erba poco cara dall’odore molto forte). Le frecce dell’autobus erano due aste azionate manualmente che producevano un suono metallico tornando nella posizione iniziale. L’autobus intero rombava e sferragliava mentre procedeva lentamente verso la parte sud di Gerusalemme, consentendomi di osservare dal finestrino i campi ai lati della strada.

Mia nonna aveva amici in città e spesso, quando andava a trovarli, l’accompagnavo. Mi metteva in guardia dal toccare la maniglia davanti al sedile che, diceva, era piena di germi lasciati dalle mani sporche degli altri passeggeri. Anche i soldi erano pieni di germi e, dopo averli toccati, dovevo sempre lavarmi le mani.
La collina selvaggia
Quando ero un po’ più grande prendevo il taxi collettivo fino a Gerusalemme, godendomi il tragitto e l’allegra musica trasmessa alla radio. Ascoltavo le vivaci chiacchiere tra i passeggeri, sempre socievoli, aperti e cordiali, su quello che avevano fatto a Gerusalemme. Nelle giornate più calde assaporavo la brezza fresca e pulita, che soffiava soprattutto al tramonto, quando ogni cosa cambiava colore. C’era tanto da osservare lungo la strada, i campi disseminati di rocce, le greggi di pecore al pascolo, il traffico che scorreva e, di tanto in tanto, un edificio più lussuoso che si ergeva fieramente al lato della strada.
Poco tempo dopo la fine della guerra mio padre fu uno dei primi palestinesi a tornare nella sua amata Jaffa, anche se solo per una breve visita. Sua sorella Mary, rimasta ad Akka (conosciuta anche come Acri) dopo la nakba, era ormai lontana. Fu un’esperienza al tempo stesso dolce e dolorosa. Mio padre stava realizzando un desiderio che aveva da tanto tempo – vedere Jaffa, solo vederla – ma ci tornava da palestinese sconfitto a cui il nemico aveva sottratto il resto della Palestina. Jaffa era fatiscente, una vista desolante così diversa dalla città piena di vita dei suoi ricordi. Quando, tempo dopo, tornammo insieme a visitarla, mio padre ci mostrò i caffè un tempo animati, ora in stato di abbandono. Per me era difficile immaginare come doveva essere stata la città in passato. Forse quella visita fece capire a mio padre che non esisteva nessuna possibilità di un vero ritorno o di un risarcimento per quello che aveva perso. Come poteva esistere? Cosa avrebbe potuto risarcirlo per gli anni di dolore e di privazione vissuti dall’altra parte del confine?
Dopo essere uscito da Ramallah mi diressi prima verso la sua città gemella, Bireh, superando il campo profughi di Al Amari, un luogo sovrappopolato dove non avevo mai messo piede, fatto in gran parte di blocchi di cemento e vicoli stretti. Mi lasciai Bireh alle spalle e proseguii a sud, verso la vecchia strada che collega Ramallah e Gerusalemme.
Poco dopo passai accanto alla distilleria di arak della famiglia Jubran, a Malufieh, alla periferia della città. Bere arak e sbocconcellare saporiti mezze (una selezione di antipasti) nei caffè all’aperto era uno dei passatempi preferiti degli abitanti di Ramallah. Ora che bar e ristoranti erano chiusi, quel piacere era diventato una delle vittime dell’occupazione, aggravando il sentimento generale di malinconia.
L’epoca delle nostre villeggiature invernali a Gerico insieme ad amici di famiglia era destinata a finire, proprio come le mie gite al fiume
La distilleria, anche questa chiusa, si trovava lungo una bassa vallata circondata dalle colline. Sul fianco di una di queste, sulla mia destra, c’era una casa solitaria di pietra tra i pini, accanto a una sorgente, dove i ragazzi andavano a cacciare uccelli e a esplorare la grotta che si trovava lì. In cima alla collina mio padre aveva comprato un terreno con l’intenzione, un giorno, di costruirci una casa. Quando mi aveva portato a vederlo, avevo immaginato quella che un giorno sarebbe stata la nostra sontuosa dimora, appollaiata sulla collina e affacciata sulla valle sottostante. Ma mia madre, che non guidava, temeva di sentirsi esiliata lassù, senza vicini da andare a trovare e costretta a dipendere da mio padre per spostarsi. Un altro motivo per cui quel posto le sembrava inaccettabile era che la collina era “selvaggia”, e chiaramente pericolosa. Bocciò il progetto e la casa non fu mai costruita. Se si esclude una modesta casetta a Gerico dove andavamo d’inverno, i miei genitori non si misero mai d’accordo sulla posizione, sulla grandezza né su nessun altro aspetto della casa dei loro sogni. Come del resto non furono mai d’accordo sul tipo di vita che volevano vivere.
Dopo aver pedalato per circa quattro chilometri dall’inizio del mio percorso, raggiunsi l’hotel Samiramis, sulla sinistra della strada, dove si diceva che re Hussein fosse solito fermarsi a bere una limonata quando andava da Gerusalemme a Ramallah. Da quel punto una strada stretta saliva su per una collina fino al grazioso villaggio di Kufr Aqab, con i suoi circa quattrocentoventi abitanti. Dalla strada si vedevano alcune case e il minareto. In seguito venimmo a sapere che uno degli ufficiali dell’esercito giordano morti difendendo Gerusalemme, Muhammad Ali Suad Jamil, era originario di Kufr Aqab. Dall’altro lato dell’incrocio rispetto al piccolo albergo, una strada in direzione ovest portava a un pugno di case in una località dal nome poco lusinghiero di Um Alsharayet (la madre degli stracci).
Polvere di ruggine
Proseguii superando il mulino di Jallad, uno degli unici tre mulini in tutta la Cisgiordania. Il grano veniva coltivato e macinato localmente, e integrato con un po’ di farina importata. C’erano vari setacci uno sopra l’altro, così arrugginiti che m’immaginavo la polvere di ruggine cadere da un livello all’altro al posto della farina. La figlia di Jallad, Claire, e la sua famiglia, i Kassab, avevano abitato di fronte a casa nostra fino al giorno in cui si erano trasferiti ad Amman insieme alla loro fabbrica. Avevano tre figlie, una delle quali aveva esattamente la mia età. Chiamavano il padre papa, a differenza del resto di noi che diceva baba. Partirono per Amman subito prima dell’occupazione, come se avessero saputo cosa stava per succedere.
Al mulino la strada si biforcava. Proseguii verso nordest. Qualche anno prima eravamo ancora abituati ad andare dritto, fino alla pista dell’aeroporto di Gerusalemme. Quando un aereo decollava o stava per atterrare, dovevamo aspettare dietro la barriera. Vedevamo le eliche girare accumulando potenza, poi finalmente arrivava il momento entusiasmante in cui l’aereo era pronto a partire, sfrecciava davanti ai nostri occhi e cominciava la sua ascesa. Dovevamo fermarci anche per gli atterraggi.
Mi gustavo quelle attese e seguivo attentamente ogni movimento dell’aereo, cercando di ricordare cosa avevo provato prendendone uno per andare in vacanza a Beirut. Ogni volta che passavamo da lì diretti a Gerusalemme speravo che ci fosse un aereo da osservare. Spesso, quando percorrevamo quella strada, alzavo lo sguardo verso gli aerei che arrivavano, simili a grandi uccelli sul punto di scendere in picchiata e atterrare sulla nostra macchina.
Mi chiesi come ci si dovesse sentire a esercitare il potere di ridurre in pochi minuti una macchina di lusso in un sottile ammasso di metallo
Poi fu costruita una circonvallazione che passava a est della pista dell’aeroporto. Era la strada che presi quel giorno in bicicletta. Il triangolo delimitato dalle due strade, la vecchia e la nuova, era pieno di vegetazione, in gran parte pini e alberi di agrumi.
Un posto di blocco della dogana israeliana controllava le macchine e i beni trasportati dalla Cisgiordania in Israele. I funzionari israeliani mi lanciarono uno sguardo perplesso quando gli passai davanti pedalando. Non ero una macchina ed era evidente che non trasportavo nulla, quindi non c’era motivo di fermarmi. Subito dopo notai, sul lato della strada, una macchina che era stata schiacciata da un carro armato israeliano. Mi fermai per fotografarla, poi ripresi a pedalare in salita.
C’erano altre macchine distrutte lungo la strada, modelli più cari di quello che avevo già visto, Opel e Mercedes-Benz. Mi fermai a fotografare anche quelle. Ma prima di scattare mi misi a osservarle. Erano state tutte schiacciate da un carro armato che ci era passato sopra, ne ero certo. Mi chiesi come ci si dovesse sentire a esercitare il potere di ridurre in pochi minuti una macchina di lusso in un sottile ammasso di metallo.
L’autista del carro armato e i suoi compagni esultavano ogni volta che passavano sopra una macchina? Gli altri guidavano l’autista verso un’altra macchina da schiacciare, parcheggiata davanti a una delle tante case eleganti di quella strada? I palestinesi che ci vivevano possedevano macchine molto più care di quelle che la maggior parte degli israeliani poteva permettersi. Volevano distruggerle spinti dall’invidia o era una vendetta? Siamo i vincitori, quindi possiamo fare quello che vogliamo ai vinti. Era quello il momento in cui era nato l’atteggiamento distruttivo che dura da più di mezzo secolo? E poi c’erano i proprietari delle macchine. I soldati scrutavano le finestre per vedere le loro facce afflitte dalla distruzione del loro prezioso bene? Ci provavano gusto?
Tutte quelle emozioni dovevano certamente essere presenti perché quell’attività non aveva nessuna giustificazione militare. Serviva esclusivamente a divertire i soldati israeliani a spese dei palestinesi. A quel punto un pensiero terrificante mi attraversò la mente: da quel giorno in poi, avendo perso una guerra che non avevamo combattuto, saremmo diventati come argilla nelle mani dell’esercito israeliano, che cominciava a credere di poter fare di noi quello che voleva, nella totale impunità? Più immaginavo cose del genere e più il futuro mi appariva spaventoso. Mi sforzai d’interrompere quei pensieri così sfibranti e ripresi a pedalare.

In un sonno profondo
Poi apparve la punta est della pista dell’aeroporto. Era leggermente sopraelevata rispetto alla strada. Prima di raggiungerla passai accanto al centro di formazione professionale dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi. Dall’altro lato della strada c’era il campo profughi di Qalandia, un’altra area affollata piena di case di cemento strette le une alle altre e separate da vicoli. Il contrasto con il centro, che aveva un giardino lussureggiante, era notevole. Girai lo sguardo dalla superficie senza vegetazione del campo verso il cancello in ferro battuto del centro, oltre il quale si vedevano gli alberi pieni di uccelli lungo il viale che portava agli edifici della scuola, invisibili dalla strada. Escluso il campo sovrappopolato che degradava verso est, in quell’area non c’erano altri edifici.
Il campo profughi era calmo, come immerso in un sonno profondo. O almeno così credevo. All’epoca ero completamento ignaro delle emozioni scatenate tra i profughi del 1948 dalla clamorosa vittoria di Israele contro gli stati arabi. E tanto meno ero preparato alle reazioni, dopo anni di passività, che sarebbero state provocate dall’ascesa all’estero dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e dalla resistenza contro Israele. Si sarebbero alzate voci mai sentite nei precedenti diciannove anni. Ma in quel momento il campo sembrava calmo, sconfitto, scoraggiato. Non ero mai entrato lì né in nessun altro campo intorno a Ramallah. Li consideravo aree chiuse, fuori dalla portata della mia vista o della mia esperienza. Ci passavo davanti spessissimo, eppure non li avevo mai davvero guardati né mi ero chiesto come dovesse essere la vita all’interno.
Quello che invece vedevo era l’aeroporto, la porta verso la mia tanto attesa fuga da Ramallah, con la sua pista sopraelevata fino alla nuova strada che ora la circondava. La circonvallazione, costruita per evitare l’attraversamento della pista, era stata concepita male, e la curva risultava pericolosa se percorsa ad alta velocità. Mio padre, che spesso correva troppo, un giorno sbandò ma riuscì a riprendere il controllo della macchina, tornando a casa solo con un bernoccolo.
Dall’altro lato della strada vidi la bandiera azzurra delle Nazioni Unite sventolare sopra la scuola del campo profughi, anch’essa dipinta di azzurro. La mia opinione negativa sull’Unrwa era influenzata da quella di mio padre: la considerava un’organizzazione corrotta, i cui principali beneficiari erano i suoi impiegati stranieri, profumatamente pagati, e non i profughi palestinesi.
Perdere tutto
Subito dopo la nakba del 1948 e fino al 1954 mio padre si dedicò senza tregua alla questione del ritorno dei profughi. Fino a perdere ogni speranza. La sua battaglia si concluse amaramente. Fu un altro dei suoi fallimenti. Sono passati settantatré anni e i profughi non sono ancora tornati a casa. Nel 1954 mio padre aveva ormai capito che non bisognava combattere solo Israele ma anche i leader arabi e l’Onu, che sostenevano Israele offrendo solo un debole appoggio alla causa palestinese, mantenendo a malapena in vita la questione dei rifugiati. Forse per questo non vedevo i campi né gli uomini, le donne e i bambini che ci vivevano. Mio padre rifiutava di vederli e io facevo altrettanto, nonostante fossimo anche noi dei profughi di Jaffa. Mio padre non aveva mai accettato di registrare la famiglia all’Unrwa né di ricevere nessun tipo di aiuto, tanta era la sua rabbia verso l’organizzazione internazionale, colpevole di aver trasformato una questione di diritti in una faccenda di soccorso e di assistenza umanitaria, con tutte le conseguenze della dipendenza a lungo termine.

Dalla nostra casa di Ramallah si scorgeva in lontananza la costa del Mediterraneo, e spesso vedevo mio padre puntare lo sguardo verso la sua Jaffa. Si chiedeva probabilmente cosa fosse diventata la sua città. Immagino quanto debba essere stato difficile per lui trasferirsi da Gerusalemme in una metropoli come Jaffa, dove non conosceva nessuno, mettere su uno studio d’avvocato, avere successo. E poi perdere tutto. La casa che aveva lasciato era così vicina eppure così lontana, impossibile da raggiungere. Conoscendolo, però, so che non ha mai perso la speranza. È stato a lungo convinto che il giorno in cui sarebbe potuto tornare dovesse arrivare per forza.
L’antico villaggio di Qalandia, che dava il nome al campo allestito su quelli che un tempo erano i suoi terreni, era un po’ più distante e non si vedeva dalla strada. Nel mezzo degli altipiani centrali, la zona era insolitamente piana. Doveva essere stato il motivo principale per cui avevano costruito l’aeroporto lì. Delimitato a est da una collinetta, il terreno basso si estendeva senza ostacoli verso ovest. Il punto più elevato e strategico all’orizzonte era la collina di Nebi Samuel, alta 885 metri. Sulla pianura aperta soffiava sempre un bel venticello fresco. Quel bassopiano era così diverso dal paesaggio collinare circostante da creare una sensazione di spazio senza limiti.
Prima della guerra, quando un aereo stava per atterrare, capitava di vedere dei ragazzini del posto in cima alla collinetta affacciata sull’estremità orientale della pista a guardare l’atterraggio. Nella zona non si potevano costruire altri edifici. Il paesaggio intorno all’aeroporto era aperto e arieggiato, e la pista aveva mantenuto piacevolmente vuota quella zona pianeggiante, con le sue lievi increspature che sfumavano a ovest. Approfittai di quella pedalata intorno alla punta est dell’aeroporto per osservare più da vicino la pista abbandonata. La strada, dopo aver costeggiato la pista a est, svoltava a sudovest e scendeva per un lieve pendio.
A forma di fagiolo
Fin dai primi giorni dell’occupazione, uno dei princìpi su cui si fondò l’espansione di Gerusalemme fu l’allargamento dei confini della città verso nord fino a inglobare l’aeroporto. Israele lo dichiarò aeroporto internazionale, ma nessuno stato lo riconobbe né accettò che dei voli internazionali atterrassero o decollassero da lì, perché rifiutavano di riconoscere l’annessione di Gerusalemme a Israele. Rimase quindi un piccolo aeroporto usato per i voli interni e a volte dagli aerei dei funzionari e dei soldati delle Nazioni Unite. Durante la prima intifada servì da parcheggio per le macchine sequestrate dall’esercito. Lungo il pendio che scendeva verso sud c’erano pochissime case. Pedalando potei godere della vista aperta e della brezza dolce e rinfrescante.
Più avanti, il terreno sulla destra era separato dalla strada da un piccolo bacino. Anni dopo un ebreo francese dal fisico teso e asciutto aprì in un vecchio edificio poco distante una scuola di equitazione, dove con alcuni amici imparai ad andare a cavallo. Una volta presa dimestichezza, percorrevamo al galoppo le colline coltivate a ulivi fino a raggiungere la ripida salita verso Nebi Samuel. Lungo la strada dovevamo stare attenti a non farci disarcionare dai rami bassi degli alberi. Era una corsa elettrizzante. Ed è una vera fortuna che un cavallerizzo inesperto come me non sia mai caduto rompendosi il collo.

Dopo il 1948 e durante i diciannove anni di controllo della Giordania sulla Cisgiordania, privata del suo accesso al mare, le strade attraversavano da nord a sud quel territorio a forma di fagiolo. Il sud si raggiungeva passando attraverso la parte nord di Gerusalemme, poi aggirando le zone sud della città, sotto controllo israeliano. Prima del 1948 Gerusalemme era collegata alla regione costiera da una strada che attraversava Bab el Wad. Era possibile andare da Ramallah a Jaffa senza passare da Gerusalemme, che per il resto della Palestina era una località minore e priva di interesse strategico. Ma con la fondazione di Israele su gran parte dei territori intorno alla Cisgiordania, la strada tra Ramallah e Gerusalemme diventò fondamentale come principale via di comunicazione tra il nord e il sud della Cisgiordania.
Quando ero piccolo l’unica strada che conoscevo per raggiungere Gerusalemme e le città e i villaggi meridionali era quella che percorsi quel giorno in bici. E così ogni dettaglio di quel breve tratto mi era familiare. Naturalmente l’esperienza di mio padre era stata diversa. Quante volte doveva essere partito da Jaffa, dove aveva aperto il suo studio, per andare a trovare suo padre a Gerusalemme, passando per Bab el Wad. Quando nel 1948 lasciò Jaffa per rifugiarsi a Ramallah, dovette invece prendere la strada che collegava direttamente le due città passando per Latrun. Dopo il 1948 quella strada fu chiusa.
Strati di graffiti
L’esperienza della Palestina di mio padre era completamente diversa dalla mia. Per lui l’intero paese – la regione costiera, la bassa e alta Galilea, Gaza e la valle del Giordano – era stato aperto. Le città e i villaggi del paese erano collegati da strade che non dovevano fare deviazioni per evitare confini. Io non avevo conosciuto quei collegamenti e quindi non li rimpiangevo. Com’è stata diversa e distorta la mia esperienza del paese, quanto ridotta la mia esistenza. Sono cresciuto pensando che la strada che stavo percorrendo quel giorno fosse l’unica strada, e che la vita come l’avevo vissuta in una Cisgiordania senza sbocchi sul mare, l’unica vita.
Con l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele, l’intera Palestina geografica ridiventò accessibile a tutti i suoi abitanti, palestinesi e israeliani. Tornò allo stato in cui l’aveva conosciuta la generazione di mio padre. Per me e per la mia generazione fu un’esperienza nuova. Ma non lo sarebbe rimasta a lungo.
Se oggi volessi andare in bicicletta da Ramallah a Gerusalemme, verrei fermato al posto di blocco di Qalandia, a circa cinquecento metri dal centro di formazione professionale dell’Unrwa. Il checkpoint segna ormai il confine tra Israele e la Cisgiordania. È stato costruito a est della pista dell’aeroporto, che ora è avvolta dal muro di annessione alto quattro metri. Un tempo vuote, le strisce di terra su entrambi i lati della strada tra il punto dove si trovava la dogana e il centro di formazione professionale sono ora densamente edificate e in uno stato pietoso. La strada è sempre intasata da macchine che cercano di entrare a Gerusalemme o che proseguono a est, verso la parte meridionale della Cisgiordania attraverso il villaggio di Jaba.

Avvicinandosi al posto di blocco ci si trova di fronte al muro di cemento che Israele ha costruito per circondare la pista dell’aeroporto e separarla dal resto della Cisgiordania. Questa parte di muro è imbrattata da strati di graffiti. Si riescono a distinguere il ritratto di Yasser Arafat con la sua kefiah e un altro del più giovane Marwan Barghouti, il leader palestinese in carcere. Il muro poi continua dall’altra parte del posto di blocco. È come se qualcuno avesse preso un pennarello e disegnato una spessa linea intorno a ogni area abitata dai palestinesi, e poi lungo quella linea avesse costruito un muro con le torri di guardia, accerchiando tutte le comunità e i villaggi. Quello che in passato era un luogo aperto, privo di barriere, è stato trasformato in una serie di zone isolate, intrappolando le comunità palestinesi e separandole da Israele.
La collinetta dove si arrampicavano i ragazzini della zona per osservare la pista di atterraggio è stata in gran parte spianata per far posto agli uffici e ai parcheggi del posto di blocco. Solo una piccola parte della collina è rimasta, il resto è scomparso, e quella che un tempo era una piacevole distesa naturale ora è un’area strozzata dal muro con le sue torri di guardia. La pista è ormai invisibile dalla strada.
Il posto di blocco di Qalandia è diventato la nuova porta di Mandelbaum, che in passato separava le due parti di Gerusalemme. Questa barriera divide la Cisgiordania dai confini sempre più estesi della parte orientale di Gerusalemme. Qui i timori e l’insensibilità degli israeliani verso i palestinesi traspaiono chiaramente, sia dal modo in cui il muro è concepito sia dal tracciato che segue. È un muro molto più impressionante di quello che segnò la divisione di Gerusalemme dopo il 1948. Ci sono soldati israeliani da entrambi i lati. Solo chi ha un documento di residenza a Gerusalemme può attraversare il posto di blocco. Le macchine con una targa cisgiordana non possono più transitare e sono costrette a passare a est. Devono girare intorno a Gerusalemme percorrendo la nuova tangenziale che costeggia il villaggio di Jaba, poi dirigersi a sud verso Wadi Nar, la valle del fuoco, senza mai entrare nell’area metropolitana o nei villaggi circostanti annessi alla città dopo il 1967. Spesso il tratto tra Ramallah e Qalandia si ingorga di file di macchine che arrivano fino a Kufr Aqab, il paesino che avevo superato all’inizio del mio percorso in bicicletta.
Poco tempo dopo quella gita, Israele annetté questo borgo scarsamente popolato, insieme ad altri ventotto paesini, inglobandoli dentro Gerusalemme. L’annessione seguiva un tracciato irregolare che evitava le aree più popolate da palestinesi includendo invece le terre palestinesi meno edificate. La parte a ovest della strada dove pedalavo fu incorporata dentro la città mentre la parte a est, compreso il campo profughi, rimase in Cisgiordania. Di conseguenza chi abitava dal lato orientale della strada era considerato un residente di Gerusalemme, ma non chi abitava dal lato occidentale.
Chiedere favori
Il nuovo confine allargato di Gerusalemme raggiunge la periferia di Bireh. Kufr Aqab e parti di Um Alsharayet, dove un tempo c’era solo un pugno di case, sono stati assorbiti nella grande Gerusalemme. Data la carenza di alloggi per i palestinesi di Gerusalemme, negli anni molti di loro, costretti a rimanere dentro i confini della città per non perdere il loro status di residenti, si sono trasferiti in queste zone. Il conseguente boom edilizio, che Israele non ha voluto pianificare né inquadrare per impedire gli abusi, ha trasformato Kufr Aqab e Um Alsharayet in giungle urbane. La massa di nuovi edifici ha sommerso il grazioso villaggio che nel 1967, pedalando, avevo avvistato in cima alla collina sulla mia sinistra. La stessa sorte è capitata alla casa solitaria tra i pini, sul lato ovest della strada, dove si trovavano i terreni di mio padre. Tutti gli alberi sono stati abbattuti e rimpiazzati da una foresta di palazzi, dritti uno accanto all’altro. Per fortuna mio padre non ha mai costruito una casa lì.

Quella mattina di giugno del 1967, mentre ero diretto a Gerusalemme, non potevo immaginare che la porta di Mandelbaum che separava la parte est di Gerusalemme (quella che nella mia infanzia avevo sempre considerato la mia Gerusalemme) e la parte ovest controllata da Israele (che mi era completamente ignota) sarebbe stata spostata a Qalandia, proprio com’era accaduto al muro che fino al 1967 divideva la parte est di Gerusalemme controllata dalla Giordania da quella ovest controllata da Israele.
Mio padre ha vissuto varie brutte esperienze legate a quella porta. Sua sorella viveva ad Akka e potevano vedersi solo a Natale se lei riusciva a ottenere dal governo israeliano l’autorizzazione a venire per qualche giorno a trascorrere le feste da noi a Ramallah. Quei ricordi angoscianti devono essergli tornati in mente quando ha saputo che suo fratello era andato ad Amman, in Giordania. Mio padre temeva di essere separato dal fratello e di perderlo come aveva perso sua sorella. Come sarebbe stato ora, cosa avrebbe dovuto fare per poter continuare a ricevere una visita del fratello? Chi avrebbe dovuto sollecitare per ottenere le autorizzazioni necessarie? Il fratello lo costringeva ancora una volta a chiedere favori per ottenere il permesso di fargli attraversare il nuovo confine. La cosa mandava mio padre su tutte le furie.
Ma tutto questo mi sfuggiva quella mattina di giugno mentre pedalavo verso Gerusalemme.
All’ombra del muro
Dopo aver superato la punta est della pista dell’aeroporto, sfrecciai a ruota libera giù per il pendio, privo di case da entrambi i lati della strada. Arrivai al Ponte di metà strada, così chiamato perché si trova a metà strada tra Ramallah e Gerusalemme. A quel punto avevo percorso circa sei chilometri, quasi la metà della distanza tra le due città.
Il sole di giugno era sempre più forte ma il venticello fresco continuava a soffiare. Quando piove, sotto il ponte scorre un bel ruscello. Il villaggio di Er Ram (che significa collinetta) si trova su un piccolo rilievo subito a nord del ponte. Lungo la strada vicino a Er Ram c’è un gruppetto di case nuove noto come Dahiyat al Barid (il distretto delle poste). Era una delle poche cooperative abitative e apparteneva agli impiegati delle poste di Gerusalemme. La stessa persona all’origine di quell’iniziativa d’avanguardia aveva promosso un’altra cooperativa in un tratto di pianura a circa quattro chilometri dal centro di Gerico, in direzione del fiume Giordano. Mio padre aveva aderito a quel progetto. Dopo diversi anni le abitazioni di cemento, ognuna circondata da un giardino, furono pronte. Era il 1962 quando diventammo proprietari di una casa per l’inverno nel clima caldo di Gerico, dove passavamo il weekend appena possibile. In quella casa tenevo una bicicletta, con cui esploravo la pianura circostante, così diversa dalle colline di Ramallah. A volte pedalavo fino alle sponde del Giordano. Abbiamo trascorso molti weekend felici nella nostra casa d’inverno. In giardino avevamo ogni genere di alberi di agrumi e di verdure che, grazie agli inverni miti e all’acqua abbondante, crescevano come per magia. Nulla a che vedere con il nostro giardino di Ramallah, dove i pini rendevano il terreno acido.

Dopo la guerra del 1967 venimmo a sapere che qualcuno era entrato in casa e l’aveva saccheggiata. Molte delle famiglie del ceto medio che avevano una casa lì erano originarie di Amman e non potevano più usare le loro abitazioni. Anche molti altri proprietari provenienti dalla Cisgiordania si erano trasferiti in Giordania. Dopo la guerra la classe media si ridusse drasticamente. Come spesso capita, i suoi appartenenti sono i primi ad andarsene. Anche l’epoca delle nostre villeggiature invernali a Gerico insieme ad amici di famiglia era destinata a finire, proprio come le mie gite al fiume, diventato la nuova frontiera, temibile e inavvicinabile. Così fu sconvolta la nostra vecchia vita con l’inizio dell’occupazione.
Vicino a Dahiyat al Barid, dall’altro lato della strada, c’era il villaggio di Bir Nabala con le sue tante sorgenti e le ricche terre agricole (il nome significa infatti la sorgente di Nabala). Si raggiungeva prendendo una piccola deviazione dalla strada tra Ramallah e Gerusalemme.
Per vari anni, prima di essere spostato più a nord, a Qalandia, il posto di blocco è stato all’altezza del Ponte a metà strada.
Ricordo quando cominciarono a costruire il muro di annessione lungo questa strada. Vidi piazzare i primi blocchi di cemento proprio in mezzo alla carreggiata. Non credevo che l’avrebbero costruito lì. Mi dicevo che era impossibile che lo costruissero in quel posto. E invece è lì che l’hanno eretto e che ancora si trova.
Questo tratto del muro di annessione che comincia a Qalandia continua verso sud, tagliando a metà la strada tra Ramallah e Gerusalemme. Chi va a Gerusalemme ora viaggia all’ombra del muro. Al ponte il muro curva verso est separando Er Ram da Dahiyat al Barid e accerchiando il primo, che rimane in Cisgiordania. Quindi prosegue a est mantenendo gli insediamenti di Nebi Samuel nella parte israeliana e il villaggio palestinese di Jaba nella parte palestinese. Si estende anche a ovest bloccando l’ingresso a Bir Nabala e circondando la città. Sopra quell’ingresso chiuso passa una superstrada che collega gli insediamenti di Gerusalemme a Tel Aviv e alla zona costiera. In questo vicolo cieco una compagnia israeliana, GreenNet, gestisce un grande impianto di smistamento dei rifiuti raccolti a Gerusalemme. Nella zona regna un permanente odore nauseante.
Prima della costruzione del muro, il villaggio di Er Ram si era trasformato in una caotica cittadina per via dei tanti palestinesi che non avevano trovato casa nella zona est di Gerusalemme. Ora che El Ram si trova al di là del muro, in Cisgiordania, chi vuole mantenere la residenza a Gerusalemme ha dovuto andarsene e cercare casa nell’area riconosciuta come Gerusalemme. Lo stesso è successo a Bir Nabala.
Un processo graduale
Mentre scrivo tutto questo, cinquantatré anni dopo, la zona dove si trova il posto di blocco di Qalandia, che un tempo era uno spazio aperto, accarezzato da una brezza dolce, così piacevolmente diverso da gran parte del paesaggio circostante, si è trasformata in un luogo sporco e tormentato, cosparso di rifiuti, recintato dal muro, incatenato da cancelli e opprimenti tornelli troppo stretti per le persone sovrappeso. Sono in corso progetti per costruire nell’area dell’aeroporto di Gerusalemme degli alloggi destinati agli ebrei ortodossi, in modo da completare l’accerchiamento di Gerusalemme Est con le colonie ebraiche.
Quando Israele decise di isolare Gerusalemme dalla Cisgiordania dopo il 1991, il processo fu graduale. All’inizio avevano collocato il posto di blocco molto più a sud. Poi l’hanno lentamente spostato a nord, avvicinandolo a Ramallah fino a stabilirlo nel punto attuale, a Qalandia, in modo da fargli assumere il ruolo che un tempo era stato della porta di Mandelbaum. Ma questa volta i soldati israeliani si trovano da entrambi i lati del posto di blocco, che ormai separa la grande Gerusalemme sotto il controllo di Israele dalla Cisgiordania. ◆ fs
Raja Shehadeh è un avvocato e scrittore palestinese. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Dove sta il limite (Einaudi 2019).
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Questo articolo è uscito sul numero 1420 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati