Le esteladas, le bandiere catalane che fino a un paio d’anni fa decoravano i balconi di Barcellona, oggi non sono più così numerose. Nella seconda città della Spagna l’atmosfera è più rilassata di quanto non lo sia mai stata negli ultimi dieci anni, cioè da quando i nazionalisti catalani hanno avviato un’aggressiva manovra politica per ottenere l’indipendenza. Il processo è culminato nel 2017 con un referendum incostituzionale, la dichiarazione d’indipendenza, l’imposizione temporanea del governo diretto da parte di Madrid e le durissime condanne di nove leader separatisti.

Negli ultimi tempi, però, la pandemia ha fatto emergere un diffuso sentimento di stanchezza, e il conflitto sta lentamente lasciando il posto alla distensione.

Nel tentativo di calmare gli animi, a giugno il premier spagnolo Pedro Sánchez (del Partito socialista) ha concesso la grazia ai separatisti condannati. Poco prima, a febbraio, alle elezioni regionali catalane la coalizione separatista era stata confermata al potere, ma il partito più votato tra quelli favorevoli all’indipendenza era stato Esquerra republicana, il più pragmatico. E infine questa settimana Sánchez e Pere Aragonès, il presidente del governo catalano, inaugurano un tavolo politico per discutere del futuro della Catalogna.

Spinte centrifughe

I separatisti più prudenti sanno di aver forzato la mano in una regione che è profondamente divisa e in cui l’indipendentismo non è mai stato sostenuto da una netta maggioranza. “È dal 2017 che la Catalogna sta digerendo quel fallimento politico”, sostiene Salvador Illa, leader della sezione catalana del Partito socialista.

Il dialogo tra Sánchez e Aragonès non sarà rapido né semplice. Il presidente catalano avanzerà due richieste. Prima di tutto vuole una piena amnistia: diversi leader catalani ancora latitanti (tra cui l’ex governatore Carles Puigdemont) rischiano infatti il processo se rientrano in Spagna, mentre la corte dei conti spagnola chiede ai funzionari pubblici catalani di restituire 5,4 milioni di euro che sarebbero stati spesi illecitamente per promuovere l’indipendentismo all’estero.

In secondo luogo, Aragonès punta a organizzare un altro referendum, stavolta in accordo con il governo nazionale. La maggior parte degli esperti sostiene tuttavia che un voto sull’indipendenza catalana sarebbe incostituzionale. Entrambe le richieste sono politicamente irricevibili per Sánchez. Resta da capire se sarà possibile trovare un compromesso, e in caso quale forma potrà assumere.

Il problema riguarda la Spagna intera. Jordi Pujol, il padre del nazionalismo catalano moderno, ha detto di recente che il movimento separatista “non è abbastanza forte da ottenere l’indipendenza, ma può creare grossi problemi a Madrid”. In Spagna c’è un forte nazionalismo periferico, non solo catalano, ma anche basco e, in misura minore, galiziano. I motivi di queste spinte centrifughe sono soprattutto storici. Nell’ottocento, quando i filosofi romantici inventarono il nazionalismo moderno, lo stato spagnolo era troppo debole per imporre una cultura e una lingua uniformi, come successe in Francia.

Più tardi, le forze indipendentiste furono brutalmente represse durante la dittatura di Francisco Franco, fino a quando, nel 1978, fu approvata la costituzione democratica spagnola, che sembrò in grado di risolvere il problema concedendo una forte autonomia alle regioni. Gli autori della costituzione optarono per un federalismo de facto, aperto e asimmetrico. Ma nel corso degli anni, per ottenere i loro voti al parlamento nazionale, i governi conservatori e socialisti hanno concesso sempre più poteri ai baschi e ai catalani, che in cambio hanno chiesto un trattamento preferenziale rispetto alle altre regioni.

Anche se piuttosto confuso, il sistema ha funzionato fino a quando c’erano i soldi e la volontà politica per mandarlo avanti. Dopo la crisi finanziaria del 2007-2009 tutto è cambiato. E la politica spagnola è stata travolta dall’emergere di tre nuove forze populiste. Dietro la svolta separatista del nazionalismo catalano c’è infatti una buona dose di populismo identitario. Poi è arrivato Podemos, partito di sinistra che rifiuta alcune parti della costituzione, fa parte dell’attuale coalizione di governo ed è favorevole alla nascita di una Spagna confederale. E Infine Vox, una forza di estrema destra in grande ascesa, che sostiene il ritorno a un sistema centralizzato.

Il modello tedesco

Juan José López Burniol, esperto legale vicino ai vertici dell’economia catalana, crede che un eventuale compromesso dovrebbe includere il riconoscimento della Catalogna come nazione, in termini culturali ma non politici; un tetto per i trasferimenti fiscali alle riserve centrali; un’agenzia delle entrate condivisa; il rafforzamento dei poteri del governo regionale su istruzione, politiche linguistiche e cultura. Questo pacchetto di riforme dovrebbe poi essere sottoposto a un referendum. Pujol ha immaginato una soluzione simile. I socialisti catalani sono invece più prudenti e pensano che il dialogo debba concentrarsi sulla riforma degli accordi fiscali.

Sulla strada del dialogo, però, ci sono tre ostacoli. Innanzitutto, per durare nel tempo qualsiasi accordo ha bisogno dell’approvazione del Partito popolare, che in Catalogna ha pochi voti, ma nel resto del paese cavalca i sentimenti antiseparatisti. E vuole ridurre l’uso del catalano nelle scuole. In secondo luogo, ci vorranno anni prima che gli elettori separatisti accettino un compromesso. Infine, bisogna tenere presente che in questo processo il resto della Spagna non può essere considerato uno spettatore passivo. “Non possiamo permettere che il dialogo sulla Catalogna diventi il modello per i rapporti tra il potere centrale e tutte le altre regioni del paese”, ha detto Ximo Puig, presidente socialista della Comunità valenciana.

In un certo senso il separatismo catalano è una risposta al relativo declino della regione. Alla morte di Franco, nel 1975, l’economia catalana era il 25 per cento più grande rispetto a quella della regione di Madrid. Nel 2018 il pil della comunità autonoma di Madrid ha superato quello della Catalogna. Se la Spagna dovesse ricominciare da zero, la risposta migliore al dilemma regionale sarebbe un federalismo in stile tedesco. Ma difficilmente questo scenario diventerà realtà. Per il conflitto catalano non c’è una soluzione chiara. Eppure un compromesso ingegnoso dovrebbe essere possibile. E forse proprio da questo compromesso dipenderà il futuro della Spagna intera. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1427 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati