Le donne che rompono i vincoli sociali fanno invariabilmente una brutta fine nei romanzi ottocenteschi. Emma Bovary, Thérèse Raquin e Anna Karenina affrontano crudeltà e punizioni fatali in cambio della libertà sessuale. In Isole di grazia Rose Tremain prende l’immagine tradizionale dell’Inghilterra vittoriana e la fa esplodere con una serie di donne per le quali la trasgressione non porta né all’emancipazione né alla dannazione. E, con un piacevole rovesciamento letterario, è un uomo “caduto” a dover lasciare il paese in un esilio disperato. Questi sono i principali punti di forza di una narrazione che si dirama in due trame, una a Bath e l’altra nel Borneo. Nella città termale Jane lavora insieme al padre medico come una sorta d’infermiera idroterapica, così dotata da guadagnarsi la reputazione di “Angelo dei bagni”. La giovane Clorinda Morrissey, invece, è fuggita da Dublino per aprire una sala da tè con i proventi illeciti di un cimelio di famiglia. Dall’altra parte del mondo, nell’arcipelago malese, la cultura britannica è stata esportata nella mischia generale del colonialismo europeo, con risultati prevedibilmente tossici. Se Bath rappresenta i talenti e le lotte femminili, il Borneo è un terreno maschile: le libertà sono maggiori, ma anche le punizioni. Isole di grazia è un romanzo ben raccontato, che contiene le scintille di molti altri romanzi; ma è frustrante che le parti migliori non si fondano mai in un’unica storia.
Natalie Whittle, Financial Times
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Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati