Il mio viaggio immaginario ascoltando il nuovo disco di Cate Le Bon potrebbe svolgersi così: sognare sulla riviera francese, finire in un lurido albergo abbandonato e alla fine, farmi avvolgere da lenzuola profumate mentre le ceneri del Vesuvio mi sommergono rendendomi immortale. Visioni fredde e remote, che risultano anche intime perché nascono da una memoria collettiva condivisa. L’ultimo lavoro dell’artista gallese esiste grazie a questo antagonismo tra lo svelare e il nascondere, che crea una strana alchimia. Da Reward del 2019, Le Bon ha lasciato respirare di più le sue composizioni; si è trasformata in produttrice e arrangiatrice per non cedere a compromessi. Il suono di Pompeii è ironico ed evanescente. In pezzi come Harbour o Cry me old trouble Le Bon salda la loro sfarzosità alle melodie esitanti che li animano. Il risultato finale è una musica in totale divenire, una ricerca costante di uno stato mentale per autoaffermarsi. Paragonate a Reward, queste canzoni riempiono più spazio ma restano in qualche modo dei pezzi d’accompagnamento, uniti da una dedizione reverenziale all’obliquo come diretto, agli spasmi come forma di controllo.

Stephen Axeman,
Under the Radar

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1447 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati