Antichità parla di uno scavo nel passato da parte di un uomo non abbastanza intelligente da comprendere appieno ciò che ha dissotterrato e rivelato. Lloyd Wilkinson Petrie è una reliquia culturale, un noioso avvocato in pensione che nel 1949 vive, con altri sei anziani amministratori superstiti della Temple academy for boys, nel loro ex collegio della contea di Westchester, chiuso 34 anni prima. Petrie racconta un’esperienza importante dei suoi giorni di scuola: la sua adorazione per un misterioso compagno di classe, un ragazzo preso in giro dagli altri studenti per via del suo nome straniero, Ben-Zion Elefantin, dello strano accento e dell’aspetto scheletrico. I ricordi di Petrie della sua infatuazione da scolaro sono profondamente intrecciati con quelli di suo padre, che morì quando aveva dieci anni. Petrie scopre che anche il suo integerrimo genitore aveva sofferto di un’infatuazione per le antichità che lo portò ad abbandonare per un breve periodo la nuova moglie e la posizione nello studio legale di famiglia per un’avventura in una vita diversa: lo scavo della grande piramide di Giza in Egitto, gestito dal famoso archeologo (realmente esistito) sir William Matthew Flinders Petrie, che lui credeva essere un cugino. Lo scavo tra le macerie di entrambe le infatuazioni è un lavoro pesante per Petrie. In un momento di rara autoconsapevolezza nota che “è come se dovessi scavare, in un deserto, ciò che giace molto in basso e non vuole emergere: le mie emozioni di ragazzo”. Petrie vuole rimettere le cose a posto attraverso la scrittura. Ma frustrato dalla sua incapacità di farlo, inveisce contro il suo “vile libro di memorie”.
Heller McAlpin, The Wall Street Journal

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Questo articolo è uscito sul numero 1449 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati