Che razza di libro! di Jason Mott è un romanzo che confonde i normali parametri della narrazione. Comincia come un racconto relativamente semplice sul tour di un autore nero attraverso gli Stati Uniti per promuovere il suo romanzo, anch’esso intitolato Che razza di libro!, ma si trasforma presto in una meditazione più grande sugli amici immaginari, la malattia mentale, l’alcolismo e il dolore. Non appena si pensa di sapere dove andrà a parare la storia, i confini tra realtà e immaginazione si confondono, grazie a un protagonista senza nome, inaffidabile e non del tutto simpatico. Quando appare per la prima volta, è nudo e in fuga. Sono le tre del mattino e sta scappando dal marito infuriato di una donna con cui è andato a letto. Poche pagine dopo, quando è al sicuro in un ascensore (ancora nudo), incontra una donna anziana e finge compassione per un ragazzo che è stato ucciso. Non si preoccupa di fare domande. Il nostro narratore è un uomo che cerca disperatamente di dimenticare di essere nero. Per la maggior parte del libro riconosce la sua identità solo attraverso il suo amico immaginario, un ragazzo dalla pelle molto scura che chiama semplicemente “il ragazzo” e che sembra seguirlo ovunque. Mentre la storia del tour del libro può disorientare, c’è una seconda trama, più concreta, su un altro ragazzo senza nome. È un tranquillo figlio unico con due genitori amorevoli. La sua vita è piena di meraviglie, ma tutto cambia quando assiste a una morte in famiglia. Si rende conto che essere nero può essere fatale. Eppure Che razza di libro! è una storia d’amore, anche se si tratta di un amore che porta al dolore. Lo strazio del narratore è ciò che lo spinge a vedere il mondo attraverso una lente rotta, al punto che i lettori interessati soprattutto alla trama potrebbero trovarsi frustrati. Ma la bellezza del romanzo è nelle crepe che si aprono nella trama. Le conversazioni con l’amico immaginario costringono il narratore a fare i conti con la sua vita, il colore della sua pelle, il suo libro. E alla fine, quando cerca di venire a patti con tutto questo, si rende conto che essere neri negli Stati Uniti è un viaggio d’amore.
Natachi Onwuamaegbu, The Washington Post
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Questo articolo è uscito sul numero 1461 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati