Quasi una donna statunitense su quattro abortisce nel corso della vita. A meno che non sia il personaggio di un romanzo, nel qual caso è altamente improbabile che lo faccia. La letteratura americana è stranamente silenziosa sull’argomento. Le eccezioni confermano la regola: citiamo ancora Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood del 1985 per mostrare cosa succede quando le donne perdono il diritto di scegliere. Il nuovo romanzo di Jennifer Haigh, Mercy street, esplora la precarietà dell’aborto sicuro e legale in un paese in cui è ostacolato da una combinazione di snobismo di classe, assolutismo teologico e fanatismo misogino. Al centro di Mercy street c’è Claudia, consulente di una clinica specializzata in salute riproduttiva nel centro di Boston. Il lavoro in un edificio circondato da attivisti potenzialmente violenti è diventato una routine per Claudia. Certo, è tutto incredibilmente stressante, ma l’unica sua preoccupazione è dare alle donne ciò di cui hanno bisogno. Haigh sembra ben consapevole della pesante cortina innalzata su questi luoghi. Gran parte del romanzo è dedicato a demistificare il lavoro quotidiano che vi si svolge. Haigh si scaglia contro l’ipocrisia dei conservatori pro-vita. Niente irrita Claudia più della straordinaria preoccupazione che i manifestanti provano per le donne povere fino al momento del parto, dopodiché la neomamma, del tutto impreparata, diventa semplicemente una fastidiosa scroccona che i capitalisti devono condannare o ignorare. Mercy street tratteggia con cura la geografia della povertà, quel regno invisibile che si trova appena oltre l’orizzonte della vita borghese. Senza condiscendenza o sentimentalismo, descrive persone che aspirano a vivere in una roulotte a due piani, che devono decidere tra pagare la bolletta dell’acqua e quella della tv via cavo. Haigh ci presenta anche una coppia di guerrieri pro-vita, ripercorrendo il groviglio di sfortuna, decisioni sbagliate e cattive prospettive che li tiene intrappolati. Capisce come – negate altre opportunità di successo – le fantasie di salvare i “non nati” diano a queste persone emarginate un senso, una sensazione perfino di importanza. Alla fine, però, Mercy street evita il melodramma e rimane fedele al suo rigore. Ron Charles, The Washington Post
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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati