Il primo film “coreano” dell’umanista giapponese Hirokazu Kore’eda è un’altra storia commovente e ironica su dei surrogati di famiglie. Non è all’altezza di Un affare di famiglia (Palma d’oro a Cannes nel 2018) ma è comunque un bel film, con una grande interpretazione di Song Kang-ho, sul fenomeno delle cosiddette baby box, luoghi in cui, in Corea del Sud, genitori in difficoltà possono abbandonare i loro figli. Due truffatori “rubano” un bambino e lo inseriscono nella loro rete di adozioni illegali rivolta a famiglie ricche, messa su usando una lavanderia come copertura. È tutto abbastanza improbabile, ma Kore’eda sa farsi perdonare con calore e intelligenza, portandoci in giro nel furgone della lavanderia in cui i bambini viaggiano da una possibile famiglia all’altra. Il cliché dei criminali dal cuore d’oro è tonificato da una scrittura nitida e quando il film si avvicina pericolosamente allo stucchevole ci pensa Kore’eda a tenerlo nel limite della dolcezza. Phil de Semlyen, TimeOut
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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati