Tutti i grandi registi sono dei pervertiti. In senso buono, perché la perversione serve a evocare le grandi forze sotterranee che danno potere al cinema. Il film attinge all’estasi dello sguardo: il brivido voyeuristico che deriva dall’esplorazione di mondi lontani dal proprio. Non fuga ma riflessione, deformata dal principio del piacere. Nello scrivere e dirigere Babylon – tragicommedia di tre ore e otto minuti che racconta gli intrighi nel mondo del cinema muto e il suo crollo all’avvento del sonoro – Damien Chazelle si rivela tutt’altro che un pervertito. È troppo interessato alle dinamiche del cinema per catturare l’ondata emotiva e l’eccezionale erotismo che ha definito Hollywood durante l’incandescente era del muto. Il film comincia nel 1926 e segue le storie di alcuni personaggi – Manny (Diego Calva), un ragazzo messicano che vuole a ogni costo entrare nel mondo del cinema; Nellie (Margot Robbie), star in ascesa, determinata e opportunista; e Jack Conrad (Brad Pitt), attore all’apice della carriera e del potere – fino al 1952. Chazelle c’immerge rapidamente in un mondo di eccessi, una festa sfrenata. Ma il regista, interessato ai contrasti, inserisce momenti di quiete nel ritmo febbrile del film: caotico e immobile, virulento e divino. Il che è parte del problema. Babylon è travolgente, prima che prenda piede la sensazione che sia troppo lucido e pulito. Forse è troppo impegnato a scrivere un’elegia dei film e del cinema per catturare la vera bellezza e le complicazioni della vita.
Angelica Jade Bastién, Vulture
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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati