Più di un secolo fa Gregor Samsa si svegliò trasformato in un insetto. Il nuovo romanzo di Mohsin Hamid pullula di ironiche allusioni a quella inquietante metamorfosi. Un uomo bianco di nome Anders si sveglia una mattina per scoprire che la sua pelle è diventata marrone. Come in Kafka, la causa di questa improvvisa alterazione rimane sconosciuta; il suo significato è altrettanto sfuggente. A volte fa pensare a un curioso esperimento mentale sul delirio razzista della sostituzione etnica. Di fronte al suo nuovo aspetto Anders va nel panico. È sopraffatto da una rabbia inaspettata e omicida. “Voleva uccidere l’uomo di colore che lo affrontava in casa sua, spegnere la vita che animava quel corpo”. Sperando che la sua condizione possa spontaneamente regredire, Anders dice al suo capo che è troppo malato per andare al lavoro. Solo la fame alla fine lo costringe a uscire, a tornare in compagnia degli altri. Nessuno al negozio di alimentari sembra notare la sua trasformazione, ma Anders sospetta “guizzi di ostilità o disgusto” da parte dei bianchi. E capisce velocemente le esigenze sociali del suo nuovo aspetto. Sa istintivamente che “era essenziale non essere visti come una minaccia, perché essere visti come una minaccia, scuri come lui, significava rischiare un giorno di essere cancellati”. Nonostante l’incipit kafkiano, L’ultimo uomo bianco è più vicino al registro di José Saramago. L’assurdità esistenziale del romanzo cede rapidamente il passo a una parabola di quello che si potrebbe definire un lutto razziale. Il fenomeno che colpisce Anders si verifica in tutta la città senza nome in cui vive. Ovunque, persone un tempo bianche si svegliano con la pelle marrone. Per le menti cospiratrici, ipnotizzate da siti web e programmi radiofonici incendiari, questo cambiamento della pelle è una calamità, l’orribile culmine di un diabolico “complotto contro la loro specie”. La violenza divampa. Qualcuno si uccide. Un piccolo libro sconcertante, troppo sincero per essere una satira distopica, troppo serio per essere una parodia culturale. È una speculazione fantastica che porta all’illuminazione sociale. Anticipa quel dolce giorno in cui finalmente chiuderemo la bara sull’intera orribile costruzione delle gerarchie razziali e ci vedremo per quello che siamo. Ron Charles, The Washington Post
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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati