Steve Mason non ha usato mezzi termini per dire da dove viene l’ispirazione per il suo quinto lavoro da solista: “Per me tutto il disco è un gigantesco vaffanculo alla Brexit e a chi è terrorizzato dall’immigrazione, perché l’immigrazione ha portato solo cose belle al mio paese”. E così queste undici canzoni sono segnate da un’influenza internazionale. Questa combinazione alleggerisce la rabbia del musicista scozzese, lasciandola levitare verso vette più spirituali. Mason è da sempre un artista inquieto, che dall’indie rock della Beta Band ha preso strade in cui i generi sono meno definibili. In Brothers and sisters apre con dei synth alla Vangelis (Mars man) che fioriscono in una combinazione di nefaste percussioni militari, un cantato melodico e un testo impressionista che parla di un “eccitamento celestiale”. E tutto l’album presenta accostamenti simili, anche se molto più funk. Uno dei brani più rappresentativi è No more, che ospita il cantante pachistano Javed Bashir. Mason è affiancato anche da coristi gospel e insieme a tutti loro riesce a creare qualcosa di appassionato, esaltante, a cui è difficile resistere. La produzione forse avrebbe potuto essere più energetica. Questi suoni andrebbero esaltati nella loro potenza, mentre alla fine tutto risulta un po’ troppo beneducato. La forza resta tuttavia nell’originalità della scrittura e nelle idee, come l’electro funk indiano di Brixton fish fry o il gospel blues alla Primal Scream di Upon my soul. Steve Mason sarà presto in tour e dal vivo questo disco darà il suo meglio.
Thomas H Green, The Arts Desk
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Questo articolo è uscito sul numero 1502 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati