Il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) aveva dichiarato che l’epidemia di covid-19 era un’emergenza sanitaria pubblica internazionale. Oggi, più di tre anni dopo, lo stato d’allerta globale è stato tolto. Questo però non significa che il virus, dopo aver provocato almeno venti milioni di morti nel mondo, abbia smesso di circolare. In Francia si contano in media una trentina di vittime al giorno. Negli Stati Uniti, che stanno per eliminare le ultime restrizioni, si registrano ancora mille decessi alla settimana. Di sicuro è importante mantenere una sorveglianza epidemiologica per anticipare un ritorno dell’infezione.
Il virus continua a minacciare le persone affette da deficit immunitari. Bisogna seguire l’esempio di paesi come il Giappone, dove l’uso della mascherina era già ampiamente diffuso per contrastare l’influenza. I più fragili e i più anziani hanno pagato un prezzo enorme per un virus che la Francia ha cercato di contenere solo quando i reparti di rianimazione al collasso hanno messo a rischio la parte di popolazione più produttiva. È stato giusto? La fine ufficiale della pandemia non può nascondere le conseguenze sofferte dai sopravvissuti. La situazione di chi è affetto dal covid lungo rende necessario un intenso lavoro di ricerca. È fondamentale sfruttare questa tregua. Il mistero sull’origine del Sars-cov-2, alimentato dalla mancanza di trasparenza della Cina e di alcuni partner scientifici di Pechino, non deve bloccare la riflessione su temi cruciali che riguardano la preparazione al rischio pandemico.
Abbiamo i mezzi per reagire all’inevitabile comparsa di nuovi agenti patogeni, spesso provenienti dal mondo animale? Dobbiamo scandagliare la natura, tra i pipistrelli e altri potenziali vettori, in cerca del prossimo virus assassino? Questi interrogativi, molto discussi tra i virologi, meritano di essere affrontati a livello internazionale. Lo sviluppo in tempi record di vaccini efficaci e di farmaci antivirali ci spinge a riflettere sulla produzione farmaceutica come bene comune, perché questi progressi sono stati permessi soprattutto dagli investimenti nella ricerca pubblica. La pandemia ci ha ricordato fino a che punto sia dannoso l’approccio “ognuno per sé”, perché nega ai paesi poveri gli strumenti adatti per contrastare un virus che può mutare e ripresentarsi anche nei paesi ricchi. Come ha dimostrato il caso del vaiolo delle scimmie, in tempi di pandemia l’altruismo è un’assicurazione globale sulla vita. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1511 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati