Forse Patrick Modiano non è mai stato così vicino a Proust: non per lo stile, ma per il modo molto speciale di raccontare e riscoprire il suo tempo perduto. La strada per Chevreuse è la storia di un apprendistato già avvenuto, ricomposto dalla memoria, e che potrebbe concludersi, nelle ultime pagine, con la promessa di un’opera, proprio l’opera che stiamo leggendo. Prima di questo epilogo, la narrazione lavora, con una fluidità senza pari, per sovrapporre i tre periodi di una vita: un’infanzia lontana, che immaginiamo nasconda qualche segreto, nei pressi di Jouy-en-Josas; la giovinezza negli anni sessanta; e infine il periodo contemporaneo, in cui Jean Bosmans, alter ego dell’autore, rivede la sua intera esistenza. Modiano fa rivivere le immagini di vecchi luoghi e i volti di personaggi che ha già incontrato in passato, e si sofferma sugli oggetti, piccoli segni che formano un passaggio segreto e discreto tra epoche diverse. Scivoliamo con loro dal presente al periodo dell’occupazione tedesca, dal quartiere di Saint-Lazare alla rue du Docteur-Kurzenne, dove la casa al numero 38 nasconde ancora un tesoro e un enigma irrisolto. Le sue pareti proiettano anche un’ombra inquietante, la sagoma del fratello assente, Rudy, scomparso a dieci anni. La strada per Chevreuse non è però un testamento né un romanzo triste. Più una riunione con il passato, che dà la strana sensazione di riportarci a un mondo lontano che non sappiamo più se abbiamo vissuto o sognato.
Fabrice Gabriel, Le Monde

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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati