L’ultima fatica di Benjamín Labatut è allo stesso tempo un romanzo storico e un’incursione filosofica. Il genio di Maniac è il pioniere dell’informatica John von Neumann, che mostra “un’intelligenza sinistra, simile a una macchina”. Quando è perso nei suoi pensieri, è come se gli ingranaggi stessero girando, ma è anche come se “il divino scendesse a toccare la Terra”. Come raccontano i numerosi narratori del libro, spesso con un pizzico di risentimento, il matematico era in tutto e per tutto “un alieno tra noi”. Poteva vedere in altri mondi, però non sapeva allacciarsi le scarpe. Ma anche se non riusciva a compiere gesti semplici o a comprendere l’incoerenza e la capricciosità della sua specie irrazionale, eseguiva abitualmente imprese intellettuali che sarebbero state le pietre miliari della carriera di qualsiasi altro pensatore: ha contribuito a inventare la teoria dei giochi, ha gettato le basi matematiche della fisica quantistica, ha previsto come l’rna si sarebbe dimostrato in grado di comunicare con il dna quando, un decennio dopo, fu scoperta la doppia elica, e ha fantasticato sull’intelligenza artificiale molto prima che si materializzasse nelle sue forme più sofisticate. Il Maniac del titolo di Labatut è il Mathematical analyzer, numerical integrator and computer, un primo computer progettato da von Neumann negli anni cinquanta. Ma è anche von Neumann stesso. Il Maniac è un’opera di fantasia? O la chiamiamo finzione perché non abbiamo una parola migliore?
Becca Rothfeld, The Washington Post
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Questo articolo è uscito sul numero 1532 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati