Culto. La parola non potrebbe essere più appropriata per evocare gli Abranis, un gruppo rock venerato sia dagli appassionati di musica di tutto il mondo sia dagli studiosi dell’identità berbera. Per misurarne l’impatto basta fare una passeggiata online sui siti specializzati, dove i vinili di questi musicisti algerini sono molto popolari. E questa non è una novità, anche se la compilation Amazigh freedom rock 1973-1983, pubblicata l’anno scorso dall’etichetta svizzera Bongo Joe, punta ancora una volta i riflettori su di loro. Come spiegare un fenomeno del genere? “C’è un sentimento di nostalgia per la nuova generazione di algerini nati in Europa, incuriosita da quello che rappresentiamo. All’epoca incarnavamo la simbiosi tra l’Europa e la Cabilia (una regione situata a est di Algeri). Eravamo al culmine dell’apertura culturale che dominava il mondo”, sostiene Shamy el Baz, cofondatore del gruppo. La band fu fondata alla fine degli anni sessanta da due ragazzi emigrati in Francia, che frequentavano i bar cabili nel nordest di Parigi ascoltando la musica della loro giovinezza: Elvis Presley, James Brown, Otis Redding, Duke Ellington, i Beatles, i Rolling Stones e così via. Oggi dall’altra parte dell’Africa ci sono musicisti che seguono, a loro modo, le orme degli Abranis. Per esempio i maliani Tinariwen e tutti i seguaci del desert blues. “Il loro approccio è lo stesso, nel modo di vestire come nei testi, e come noi usano chitarre piene di rock e blues”, dice El Baz.
Jacques Denis, Pam

Abranis (dr)

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Questo articolo è uscito sul numero 1565 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati