L’applicazione dell’inferenza bayesiana a una serie di caratteristiche delle rocce per valutare i dati sismici di solito non finisce in prima pagina. Ma se i dati sismici provengono da Marte, e la loro spiegazione più logica è la presenza di acqua allo stato liquido nei pori delle rocce, allora è una notizia. Nel campo della planetologia poche cose fanno gola quanto l’acqua su Marte. Perché questa prospettiva suscita così tanto entusiasmo, e cosa aggiunge il nuovo studio?

L’acqua allo stato liquido sembra essere indispensabile per la vita. E dall’ottocento fino agli esordi dell’esplorazione spaziale gli astronomi hanno ipotizzato che sulla superficie di Marte ce ne fosse. Forse non molta – l’idea che i marziani avessero costruito una rete di canali per portare l’acqua delle calotte polari fino ai tropici, proposta dall’astronomo statunitense Percival Lowell alla fine dell’ottocento, presupponeva che il pianeta avesse subìto un’estesa desertificazione – ma comunque abbastanza da sostenere la vita: se non gli esseri evoluti ipotizzati da Lowell, almeno delle forme primitive.

Negli anni sessanta la prima sonda arrivata su Marte raccontò cose diverse. Primo, il pianeta aveva un’atmosfera molto più rarefatta di quanto si pensasse, troppo perché l’acqua allo stato liquido potesse resistere in superficie (con la bassa pressione l’acqua evapora perfino a bassissime temperature). Secondo, le calotte polari sembravano composte soprattutto da anidride carbonica allo stato solido, cioè ghiaccio secco.

Ma le sonde inviate negli anni settanta dimostrarono che un tempo le cose erano state diverse. L’erosione aveva scavato valli fluviali negli altipiani meridionali di Marte. C’erano pianure che, a un occhio esperto, sembravano create da immense inondazioni. C’erano formazioni che sembravano litorali e secondo alcuni erano la prova della passata esistenza di laghi e forse addirittura di un oceano nelle depressioni settentrionali. Quello che sembrava un pianeta desolato poteva essere stato più mite, più umido e ben più abitabile. Dov’era finita l’acqua?

Si è scoperto che molta è allo stato solido: sotto una sottile patina stagionale di anidride carbonica, la calotta polare settentrionale è composta soprattutto di ghiaccio. Ce n’è tanto nei pori delle rocce superficiali, e forma una criosfera intorno al pianeta. E c’è acqua anche in alcuni minerali. I segni di scorrimento sulla superficie indicano che in certi casi ne fuoriesce un po’ allo stato liquido, almeno brevemente. La maggior parte, però, è ancora lì. Se si parte dall’idea che su Marte non ci sia mai stata molta acqua, è possibile immaginare che sia tutta ghiacciata o che si sia dispersa nello spazio a mano a mano che l’atmosfera diventava più rarefatta.

L’ultimo rifugio

Ma se invece un tempo ce n’era molta di più? L’unico posto in cui potrebbe nascondersi è nelle profondità della crosta. Ed è proprio lì che Vashan Wright e i suoi colleghi della Scripps institution of oceanography, in California, pensano di averla trovata. Il gruppo ha pubblicato su Pnas l’analisi dei dati raccolti dalla sonda statunitense Insight, che dal 2018 al 2022 ha registrato le vibrazioni della crosta dalla Elysium Planitia, una pianura vicino all’equatore.

I ricercatori hanno valutato una serie di possibili componenti della crosta per capire cosa potesse spiegare quei dati, e secondo loro l’ipotesi più probabile è la presenza di acqua allo stato liquido nei pori delle rocce a una profondità compresa tra i dieci e i venti chilometri. Se hanno ragione, e se le caratteristiche della zona esaminata da Insight sono comuni a tutto il pianeta, queste falde potrebbero contenere più di un oceano d’acqua.

Per raggiungerla servirebbero trivelle che l’attuale generazione di robot marziani non è in grado di trasportare. Estrarla sarebbe complicato perfino sulla Terra. Serviranno ulteriori analisi geofisiche per confermare o smentire i risultati. Ma se le falde esistono davvero, potrebbero offrire nuove informazioni sulla desertificazione di Marte. E se il pianeta ha davvero ospitato la vita, potrebbero essere l’habitat dei suoi ultimi sopravvissuti. ◆ sdf

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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati