C’è una piacevole circolarità rispetto a Il tempo che ci vuole. Il primo film di Francesca Comencini, Pianoforte, proiettato al festival di Venezia nel 1984, era un dramma autobiografico sulla lotta alla tossicodipendenza vissuta dalla regista nella sua tarda adolescenza. Dopo una lunga carriera, Comencini ha presentato al festival di Venezia un altro dramma autobiografico, basato stavolta sul suo rapporto con il padre, Luigi Comencini, uno degli “inventori” della commedia all’italiana. E nel film non solo vediamo una Francesca ventitreenne che accetta un premio alla Mostra del cinema, ma è anche sottolineata l’avversione del grande regista per le opere autobiografiche. Non si tratta però di un astuto esercizio metacinematografico, al contrario: Il tempo che ci vuole è un film intimo, salvato da ogni sentimentalismo dall’evidente passione familiare per il cinema e dalle solidissime interpretazioni di Fabrizio Gifuni e di Romana Maggiora Vergano. Dopo una prima parte ambientata quando Francesca è una bambina (Anna Mangiocavallo) e Luigi sta girando la celebre serie tv Le avventure di Pinocchio, il film compie un salto in avanti, verso la fine degli anni settanta. Padre e figlia dividono una grande casa borghese, non si parlano quasi mai, lui perso e amareggiato, lei cupa e infelice. Non c’è traccia delle tre sorelle di Francesca, né di sua madre. Il lungo corridoio sottolinea in modo creativo la crescente distanza tra i due, ma è anche il luogo di riavvicinamento catartico.
Lee Marshall, Screen International
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Questo articolo è uscito sul numero 1582 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati