Girato a Khartoum prima del conflitto attualmente in corso, Goodbye Julia ci riporta nel rovente passato del Sudan, nella fase di transizione verso l’indipendenza del sud. Al centro della vicenda c’è il rapporto ambiguo tra due personaggi, Mona (Yousif) e Julia (Riak). La prima appartiene all’élite musulmana della capitale, la seconda è sudista, nera, cristiana e povera. Mona provoca involontariamente la morte del marito di Julia e decide, senza darle spiegazioni, di accoglierla in casa con il figlio impiegandola come cameriera. La distanza tra la padrona e la “schiava” (così la chiama Akram, marito di Mona), accentuata da un razzismo strisciante, non si colma mai, eppure tutto ruota intorno all’imprevista complicità tra le due donne, anche se la sceneggiatura non tiene in equilibrio le loro traiettorie privilegiando quella di Mona, ex cantante soffocata dal marito. Alcune scelte (sia di scrittura sia tecniche) possono far pensare a un classicismo lezioso che allontana il film dal realismo. Ma forse questo risponde a un’immagine di un cinema isolato in una bolla in cui è più facile allinearsi allo sguardo dei privilegiati, magari per esplorarne i punti oscuri. Prendendo per buona l’allegoria politica (good-bye Julia, good-bye Sud), il film capta con finezza le stonature di una coppia borghese che non riesce a tenere il passo della storia.
Élie Raufaste, Cahiers du Cinéma
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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati