Dimenticare e ricordare sono i grandi temi dello scrittore olandese J. Bernlef che ha lasciato un segno importante nella letteratura dei Paesi Bassi con la sua scrittura frugale. Per molti anni ha lavorato nell’ombra. Poi, nel 1984, ha avuto un inatteso successo con Chimere. Raramente l’universo di un uomo che soffre di demenza è stato descritto in modo così empatico. La forza di questa delicatissima operazione letteraria sta nell’uso della prima persona, con cui Bernlef riesce a rendere quasi tangibile, materiale, l’accumulo di confusione innescato dalla malattia. Negli anni il libro è diventato un documento importantissimo sull’alzheimer, un romanzo solidissimo e apprezzato e un ardito esperimento linguistico. Marteen Klein, il protagonista, ha 71 anni ed è da poco andato in pensione. Ha appena il tempo di assaporare le piccole gioie della vecchiaia che il suo mondo comincia ad andare in pezzi. Il lettore non capisce bene cosa stia succedendo finché Marteen non comincia a ripetere le cose. Passato e presente si sovrappongono: Marteen vuole tornare al lavoro e confonde sua moglie Vera con sua madre. E poi c’è quell’onnipresente paesaggio innevato: una metafora della coscienza del protagonista sempre più ovattata. Le capacità linguistiche del narratore si disintegrano pagina dopo pagina finché non rimangono solo frammenti e la confusione è totale. In un’intervista del 1986 Bernlef ha detto: “Il paradosso è che il libro finisce nell’oblio totale, ma il risultato, ovvero il libro stesso, è, come tutti i libri, un modo di fissare la memoria per sempre. E nulla di quello che c’è scritto può andare perduto”. Dal romanzo è stato tratto un film di Heddy Honigmann nel 1987 e nel 2006 è stato adattato per il teatro con la regia di Guy Cassiers.
Dirk Leyman, De Morgen
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Questo articolo è uscito sul numero 1590 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati