In Afghanistan l’emarginazione delle donne prosegue senza pietà. L’ultima decisione del regime, annunciata il 28 dicembre, prevede che i muri dei palazzi residenziali che si affacciano sugli spazi pubblici siano senza finestre. Evidentemente il fatto che le donne siano chiuse in casa non basta più: devono diventare invisibili. Fin dal loro ritorno al potere, nel 2021, i taliban non hanno mai smesso di attaccare i diritti fondamentali delle donne, private del diritto all’istruzione ed estromesse dal mercato del lavoro. Ad agosto una legge ha portato a livelli assurdi la cancellazione della presenza femminile dagli spazi pubblici, con il divieto di cantare o di leggere a voce alta. A ottobre è stato vietato alle donne di recitare il Corano in presenza di altre, come se una preghiera di gruppo possa costituire una minaccia.

La denuncia di questo orrore non può arrivare solo dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani e dai governi occidentali, la cui credibilità si è ormai sgretolata a forza di compromessi tra i valori che pretendono di difendere e i loro interessi. I taliban, a capo di un governo che non è stato riconosciuto da nessun paese dopo il loro ritorno al potere, sembrano convinti che il tempo giochi in loro favore.

Subordinare i princìpi alla realpolitik è una scelta miope. In questa guerra contro le donne è in gioco il destino del paese: difficilmente potrà uscire dalla situazione di sottosviluppo in cui è sprofondato se continuerà a sottoporre metà della sua popolazione a un apartheid di genere.

A giugno le Nazioni Unite avevano accettato la richiesta dei taliban aprendo a Doha, in Qatar, delle trattative da cui sono stati esclusi i rappresentanti della società civile afgana, compresi alcuni movimenti per la difesa dei diritti delle donne. L’accanimento verso le donne che ne è seguito dimostra che il dialogo non sta producendo alcun risultato. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1596 di Internazionale, a pagina 15. Compra questo numero | Abbonati