Mentre gli occhi del mondo sono rivolti alla Striscia di Gaza, prosegue la “gazificazione” della Cisgiordania. Da settimane ci sono sgomberi di residenti, stravolgimenti delle regole d’ingaggio e demolizioni di case e infrastrutture. Secondo l’Autorità nazionale palestinese, circa trentamila persone hanno già lasciato i campi profughi nella Cisgiordania del nord dopo gli attacchi dell’esercito israeliano. Secondo Tel Aviv non c’è un piano per allontanare la popolazione palestinese, ma le testimonianze raccolte a Jenin e Tulkarem indicano che le azioni dell’esercito israeliano hanno causato la partenza in massa dei residenti. Anche in assenza di un piano ufficiale e organizzato, le persone vanno via “volontariamente” a causa dei coprifuochi, delle aggressioni, della presenza dei cecchini, della distruzione generalizzata e delle interruzioni di elettricità e acqua corrente. A questo bisogna aggiungere l’allentamento delle regole d’ingaggio in Cis­giordania, che ora consentono ai soldati israeliani di sparare per uccidere chiunque “interferisce sul terreno”. Secondo l’esercito l’obiettivo è combattere i gruppi armati nei campi profughi, ma per molti palestinesi è un tentativo di distruggere i luoghi in cui vivono. L’operazione è cominciata a causa della pressione dei coloni nel 2024, gli stessi coloni che vogliono trasformare la Cisgiordania in un nuovo fronte della guerra.

Sembra che Israele consideri la guerra a Gaza come un’occasione per cambiare la situazione in Cisgiordania, distruggere le infrastrutture, cacciare la popolazione palestinese e imporre una presenza militare permanente. Gli abusi verso i palestinesi non risolveranno i problemi di sicurezza di Israele, ma alimenteranno la violenza distruggendo ogni possibilità di una soluzione basata su due stati. ◆ as

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.

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Questo articolo è uscito sul numero 1602 di Internazionale, a pagina 15. Compra questo numero | Abbonati