Fu con la rivoluzione francese che la guerra moderna diventò uno scontro esistenziale tra nazioni armate, in cui erano in discussione i princìpi fondamentali del governo. La guerra era lo spirito del mondo in marcia. O almeno così pensò il poeta tedesco Goethe assistendo alla battaglia di Valmy del 1792, quando un esercito rivoluzionario improvvisato respinse inaspettatamente un’invasione controrivoluzionaria di realisti e forze prussiane equipaggiata molto meglio. “In questo giorno”, scrisse, “comincia una nuova epoca nella storia del mondo”. Quarantott’ore dopo fu proclamata la repubblica francese.
Nell’ottobre 1806, quando Napoleone entrò a Jena, alla vigilia della battaglia che avrebbe portato lo stato prussiano sull’orlo della dissoluzione, il filosofo tedesco Friedrich Hegel pensò di aver visto “l’anima del mondo” a cavallo. La guerra non era semplicemente una prassi violenta dei regnanti, un duello su scala più grande. Era la Storia, “il banco del macellaio”, diceva Hegel, “sul quale sono state immolate la felicità dei popoli, la saggezza degli stati e la virtù degli individui”. La guerra era qualcosa di affascinante e allo stesso tempo orribile, un fattore di trasformazione sempre sul punto di sfociare nella violenza assoluta, come testimoniavano gli orrori della guerriglia in Spagna dipinti da Goya. Due secoli dopo sentiamo agitarsi lo stesso spirito nei commenti sulla guerra in Ucraina.
Lo spettacolo della guerra ha sempre suscitato sentimenti contrastanti. Da un lato l’entusiasmo e qualcosa di simile al sollievo: ecco finalmente la vera politica, la vera libertà. Dall’altro, l’orrore per la violenza, la sofferenza e la distruzione. Dopo la battaglia di Waterloo del 1815, la diplomazia e la scienza sociale del tempo provarono a rimettere il genio nella lampada. Nonostante la grandeur, Napoleone era stato sconfitto. Milioni di persone erano morte nelle guerre scoppiate in tutto il mondo sull’onda dalla rivoluzione francese e il progetto napoleonico di modernizzare l’impero era fallito. La lezione, secondo i seguaci del sociologo francese Auguste Comte, era che il futuro apparteneva all’industria, non ai soldati.
La guerra, tuttavia, rifiutò di farsi domare. Contrariamente al mito, l’ottocento non fu un’epoca di pace: guerre coloniali e massacri segnarono la metà del secolo in un’ondata di violenza scatenata dalla formazione degli stati nazione in Italia (1861), negli Stati Uniti (1865), in Giappone (1868) e in Germania (1871). Eserciti di massa, mobilitati attraverso le ferrovie ed equipaggiati con armi moderne e letali, seminarono terrore e distruzione. La violenza aumentò ancora nel novecento con una lunga serie di conflitti in Eurasia, dal conflitto russo-giapponese del 1904-1905 alla guerra di Corea del 1950-1953.
La successiva pace tra le grandi potenze non fu assicurata da un trattato, ma dallo stallo della guerra fredda, fondato sulla minaccia della distruzione reciproca. L’idea che il “periodo postbellico” sia stato caratterizzato dalla smilitarizzazione è lontana dalla verità. Negli anni sessanta, in percentuale alla popolazione, negli Stati Uniti c’erano più cittadini in divisa di quanti ce ne fossero nella Germania del Kaiser prima del 1914. La Francia e il Regno Unito continuarono a mantenere una forte presenza coloniale in Asia e in Africa. Negli anni ottanta la Germania Ovest aveva 450mila uomini in divisa e schierava due corpi corazzati pronti al combattimento. La spesa per la difesa in rapporto al pil era alta come al tempo della corsa agli armamenti.
In Iraq e in Afghanistan la posta in gioco era esistenziale
La fine di questo spaventoso stallo attraverso il rovesciamento, in gran parte pacifico, dei regimi comunisti europei nel 1989 convinse il politologo statunitense Francis Fukuyama, all’epoca componente del Policy planning staff del dipartimento di stato degli Stati Uniti, che fossimo arrivati alla “fine della storia”. Questo passaggio è stato spesso descritto come un trionfo del capitalismo e della democrazia. Sicuramente lo fu, ma fu altrettanto significativo il fatto che l’occidente avesse vinto la contesa militare senza sparare un colpo. Il patto di Varsavia era crollato. Dall’epoca di Leonid Brežnev, dagli anni sessanta in poi, il sistema sovietico non sembrava più un ideale per cui valesse la pena morire. E questo per fortuna risparmiò alla Nato di risolvere la questione se fosse meglio morire che diventare comunisti.
Ancorata alla potenza statunitense e al neoliberismo depoliticizzato, la teoria della fine della storia di Fukuyama resta un’interpretazione convincente dei decenni successivi alla caduta del muro di Berlino. La battaglia ideologica sembrava essersi risolta a favore di una visione unidimensionale della democrazia liberale, dello stato di diritto e del mercato. La grande conquista consisteva non solo nel trionfo del modello liberale, ma nel fatto che ci si fosse arrivati senza spargimento di sangue. Questo dava alla fine della storia sia un senso d’inevitabilità sia, come scriveva Fukuyama, il suo carattere post-eroico.
Missili balistici
Naturalmente la fine della storia non significò la fine degli eventi o la fine della guerra. La minaccia della distruzione nucleare continuava a incombere su di noi. Con l’accordo del 1994 sul detargeting le coordinate delle principali città furono cancellate dai computer dei missili balistici intercontinentali russi e statunitensi, ma potevano essere ricaricate in qualsiasi momento in caso di necessità. Ancora oggi viviamo sotto la minaccia di un’atrocità assoluta. Non si è mai smesso di combattere, ma la guerra è cambiata.
Il conflitto tra Iran e Iraq degli anni ottanta è stato forse l’ultimo in cui due schieramenti con eserciti organizzati si sono contesi l’intera posta in gioco: qualsiasi mezzo doveva essere mobilitato per assicurare la vittoria, perché nessuna delle due parti poteva permettersi di perdere. Le guerre più sanguinose combattute negli ultimi decenni – soprattutto quelle nell’ex Jugoslavia, in Africa centrale e in Siria – sono state guerre civili allargate, spesso con il coinvolgimento di molti protagonisti non statali. In Iraq e in Afghanistan la posta in gioco era esistenziale, ma solo per la popolazione locale. Gli Stati Uniti, che hanno guidato entrambe le invasioni, erano stati scossi dagli attentati dell’11 settembre 2001, ma la guerra mondiale al terrorismo è sempre stata un’azione di polizia più che un conflitto convenzionale.
La questione posta dall’invasione russa dell’Ucraina è se l’incantesimo della fine della storia si sia finalmente spezzato. La storia è ricominciata in chiave tragica, come ha detto di recente il presidente francese Emmanuel Macron? Siamo arrivati alla fine della fine della storia militare?
La risposta dipende innanzitutto dall’interpretazione delle motivazioni che hanno mosso il presidente russo Vladimir Putin. La lettura più ovvia è che questo
leader autoritario non abbia mai davvero accettato il verdetto pronunciato dalla storia nel 1991 e non si sia mai riconciliato con il crollo dell’Unione Sovietica. Di conseguenza, non accetta la pretesa degli Stati Uniti e dei loro alleati di definire l’ordine mondiale. Già nel 2007, alla conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, in Germania, Putin lanciò la sua sfida all’occidente. Da allora ha aspettato il momento più favorevole per rivedere i termini dell’indipendenza dell’Ucraina. Avrebbe potuto farlo già nella primavera del 2014 quando, dopo la rivoluzione di Maidan, il Cremlino pensò a un’invasione su vasta scala, salvo poi optare per l’annessione della Crimea e l’appoggio ai separatisti del Donbass. Per due volte la Russia costrinse gli ucraini al tavolo delle trattative a Minsk, in Bielorussia, perché Kiev temeva di essere travolta dalle forze armate del nemico. Da allora Putin ha rimpianto quella prudenza, proprio come gli Stati Uniti avevano rimpianto di non aver rovesciato il dittatore iracheno Saddam Hussein nel 1991.
Ma se questa è la motivazione di fondo, perché nel 2022 Putin ha deciso di ricorrere alla prova definitiva della battaglia? La guerra sarà anche il prolungamento della politica con altri mezzi, ma il salto verso lo scontro armato cambia in modo irrevocabile i termini degli affari internazionali. La guerra è uno strumento politico imprevedibile. La violenza tende a degenerare e comporta enormi rischi. Come scrisse il generale prussiano Carl von Clausewitz dopo la sconfitta di Napoleone, la vittoria può essere ottenuta solo unendo al successo sul campo di battaglia il calcolo politico e l’equilibrio delle energie e delle passioni politiche. È raro che quest’impresa riesca. Come hanno scoperto a loro spese gli israeliani con la guerra dei sei giorni del 1967, anche la vittoria militare più schiacciante può diventare un fardello.
Una tesi è che Putin abbia deciso di giocare d’azzardo perché è un uomo di guerra. Di conseguenza, contesta non solo i confini politici che hanno definito la fine della storia di Fukuyama, ma anche la visione liberale di un mondo governato dal commercio e dalla concezione occidentale del diritto internazionale. Putin vede la storia come il frutto dello scontro di forze oscure, e dal suo punto di vista è un merito fare piazza pulita dell’ipocrisia e portare questo scontro allo scoperto. Nel 1999 impresse a fuoco il sigillo della sua autorità sulla politica russa con la sanguinosa seconda invasione della Cecenia. Nel 2008 non si fece sfuggire l’occasione di infliggere un’umiliante punizione militare alla Georgia, colpevole di aver chiesto l’adesione alla Nato. Nel 2015 ha appoggiato il dittatore Bashar al Assad, decidendo l’esito della guerra civile siriana.
Quest’adesione alla dottrina militare porta alcuni analisti a descrivere Putin come un uomo dell’ottocento. Ma a quell’epoca a un brutale arrivista come il leader russo non sarebbe mai stato permesso di avvicinarsi alle leve del potere. Secondo l’illustre storico statunitense Stephen Kotkin, Putin incarna invece una tradizione espansionista russa che risale a cinque secoli fa, all’epoca di Ivan il terribile.
Sono idee confortanti nella loro semplicità. È lo stesso Putin a evocarle, e questo dovrebbe insospettirci. Forse faremmo meglio a tornare a Fukuyama. Nel capitolo finale del saggio La fine della storia e l’ultimo uomo (Rizzoli 1992) – intitolato “Le immense guerre dello spirito” – il politologo si chiede “fino a quando la megalotimia (il bisogno di essere riconosciuti superiori agli altri) si accontenterà di guerre metaforiche e vittorie simboliche”. Già all’inizio degli anni novanta Fukuyama avvertiva che sarebbe arrivato il momento di una figura come Putin, che avrebbe spezzato le convenzioni soffocanti della post-storia per lanciare “una guerra nichilista contro la democrazia liberale”, una battaglia sanguinosa per il prestigio, “ma questa volta con armi moderne”. Secondo questa lettura, Putin non sarebbe tanto il discendente diretto di Ivan il terribile, quanto un suo avatar postmoderno frutto di una distorsione temporale. In effetti, tra lo sfarzo in stile Las Vegas delle sale del Cremlino, il suo regime somiglia più a una messa in scena da cosplayer, la maschera di un personaggio immaginario.
La caratteristica distintiva dell’invasione russa, a parte la sua brutalità, è il senso della storia che si ripete come farsa. Putin non immaginava di imbarcarsi in una prova di forza esistenziale. Anzi, il suo approccio all’invasione di uno dei paesi più grandi d’Europa, con una popolazione di più di quaranta milioni di persone, è stato a dir poco superficiale. Pensava che la guerra sarebbe stata una cosa da poco: asimmetrica, rapida, decisiva, come in Georgia nel 2008 o in Crimea nel 2014.
Secondo questa lettura, più che interrompere la fine della storia o forzare un ritorno al conflitto primordiale, Putin intendeva sanare l’anomalia che si era creata in Ucraina con il rovesciamento del governo filorusso di Viktor Janukovyč nel 2014. E anche se l’occidente ha reagito indignato alla violenza di Putin, dobbiamo ammettere che all’inizio abbiamo condiviso la sua idea del conflitto. Il nostro sostegno all’Ucraina è stato piuttosto tiepido. Anche noi eravamo convinti che se Putin fosse stato tanto pazzo da attaccare, la guerra sarebbe finita in pochi giorni. Non abbiamo mai preso l’Ucraina sul serio: siamo rimasti a guardare e l’abbiamo abbandonata al suo destino. L’Ucraina era, e resta, fuori della protezione prevista dall’articolo 5 del trattato della Nato, che prevede l’intervento dell’alleanza se uno dei paesi che ne fanno parte è attaccato.
Che piaccia o no, siamo già precipitati in una terza guerra mondiale
Il momento più rivelatore è stato forse quando il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha denunciato l’invasione dell’Ucraina come una “guerra per scelta”. Coscientemente o no, attraverso quelle parole Blinken ha tracciato un parallelo tra la Russia e gli Stati Uniti da un lato e l’Ucraina di Volodymyr Zelenskyj e la dittatura morente di Saddam Hussein dall’altro. L’invasione di Putin e l’attacco della coalizione guidata dagli statunitensi all’Iraq nel 2003 hanno in comune lo stesso disprezzo del diritto internazionale e della logica geopolitica che hanno lasciato inorridito il resto del mondo. Quando hanno attaccato, però, gli Stati Uniti e i loro alleati si sono almeno assicurati di farlo con una potenza incontenibile. I bombardamenti aerei dell’operazione Shock and awe (colpisci e terrorizza) erano enormemente più intensi di qualsiasi azione tentata finora dalle forze di Putin. Gli sforzi degli invasori non furono frustrati dall’esercito iracheno, ma dalla successiva insurrezione.
Un paradigma rotto
Nella guerra in Ucraina la vera sorpresa sono gli ucraini. Nessuno si aspettava che l’esercito di Kiev resistesse in modo così efficace all’assalto impreparato della Russia. In questo senso è l’Ucraina che ha rotto il paradigma della fine della storia, non Putin. Gli ucraini hanno dimostrato di essere disposti a morire pur di resistere alla volontà di dominio russa e di lasciarsi aperta la possibilità di aderire all’Unione europea e alla Nato. Se c’è qualcuno che ci ha riportati ai drammi della storia dell’ottocento e del novecento, non è Putin ma Zelenskyj e il suo popolo. Gli ucraini stanno portando in scena un dramma di resistenza eroica, sovranità e autodeterminazione degno della vicina Polonia, il locus classicus dell’aspirazione romantica, e spesso tragica, all’autodeterminazione.
Dovremmo diffidare, però, dei nostri pregiudizi eurocentrici. La chiamata alle armi dell’Ucraina non è il tratto distintivo di questa guerra. Anche gli insorti iracheni e i taliban si rappresentavano negli stessi identici termini. All’interno del loro ambiente culturale, lanciavano appelli altrettanto universali di quelli di Zelenskyj. Né questa è la prima guerra a essere trasmessa sui social network. Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto la possibilità di seguire i raccapriccianti sviluppi della guerra in Siria, assedio dopo assedio, giorno dopo giorno.
Quello che rende diversa questa guerra è che la resistenza ucraina ha fermato l’invasione di Putin. Né quella irachena né quella afgana sono mai riuscite a fare altrettanto. Se gli ucraini ce l’hanno fatta, è soprattutto perché il mondo esterno al quale si sono appellati non è una comunità religiosa o culturale diffusa, ma l’alleanza armata dell’occidente, che ha risposto con un flusso continuo di armi anticarro e antiaeree all’avanguardia. I taliban scroccavano missili Stinger di seconda mano. Gli ucraini li prendono nuovi dai magazzini della Nato.
Il risultato è che Putin si è svegliato dall’incubo rancoroso del ricordo della Russia del dopo guerra fredda per ritrovarsi in una crisi esistenziale vera e propria, una “guerra vera” che l’esercito russo non è sicuro di vincere e in cui continuano ad accumularsi le accuse di crimini di guerra. Anche qui, l’esperienza della sconfitta e della vergogna da parte della potenza più grande non è di per sé una novità. Imbarazzati dal fallimento della guerra in Iraq, gli Stati Uniti hanno deciso di contenere le perdite in Afghanistan. Ma questa scelta, anche se ha danneggiato il presidente in carica, non ha messo in discussione la tenuta del regime negli Stati Uniti. Putin, invece, a questo punto si gioca tutto.
Per sfuggire all’incubo, il leader russo potrebbe decidere d’intensificare le operazioni, accarezzando perfino l’opzione nucleare. Di fronte alla crescente frustrazione dei militari russi, tuttavia, il Cremlino sembra più che altro cercare un modo per rivendicare una vittoria, magari guadagnando terreno nell’est o nel sud, un successo che permetterebbe a Mosca di accettare una sorta di accordo.
Forse Putin ha messo in discussione l’ordine del dopo guerra fredda ma, considerato lo stato incerto dell’Ucraina (che non fa parte dell’Unione europea né della Nato) e l’esito deludente dell’azione militare russa (che rende improbabile un attacco ai paesi baltici o alla Polonia), sta ad altri, principalmente alla Cina e all’alleanza occidentale, decidere come risolvere la questione. Visto che Pechino finora si è mossa con prudenza, realisticamente dovranno essere l’Unione europea e gli Stati Uniti a prendere l’iniziativa. La fine della storia sarà quella che decideremo noi.
L’Ucraina, naturalmente, ha tutto l’interesse a sfruttare l’onda dei suoi iniziali successi per allargare il conflitto. Gli ucraini sanno di aver sovvertito il corso atteso degli eventi. Sanno che la loro resistenza ha aperto un’opportunità storica. La loro paura è che la storia si chiuda davanti ai loro occhi, che il peso della potenza russa alla fine prevalga e che l’occidente si limiti a mantenere i suoi impegni e se ne stia alla larga. Kiev risponde a tutto questo insistendo che la battaglia degli ucraini è “la battaglia di tutti”. Che piaccia o no, dicono, siamo già precipitati in una terza guerra mondiale. L’aggressione della Russia all’Ucraina è solo l’inizio.
Chiaramente, se volesse, la Nato potrebbe davvero trasformare questo conflitto nella terza guerra mondiale. Basterebbe imporre una no-fly zone. Vista l’impreparazione dimostrata finora dalla Russia, qualcuno ritiene che l’occidente avrebbe buone possibilità di vincere. I governi europei si sono già spinti molto al di là di quello che si pensava possibile. La Svezia e la Germania hanno inviato armi. La Svizzera ha imposto sanzioni finanziarie. Di fronte alla sfacciata violazione del diritto internazionale da parte della Russia, l’occidente ha detto all’India e alla Cina che non possono restare neutrali. Nonostante tutto, però, l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno deciso di non entrare direttamente in guerra. Il flusso delle armi inviate in Ucraina è impressionante e alla fine potrebbe bastare a sconfiggere la Russia. Quelle armi, però, sono state attentamente selezionate. Danno agli ucraini gli strumenti per respingere l’attacco russo, non mettono l’Ucraina nella condizione di attaccare la Russia.
L’affermazione di Putin secondo cui l’Ucraina sarebbe stata usata come base per colpire il ventre molle della Russia, quindi, sembra ancora meno plausibile oggi di quanto non lo fosse prima dell’invasione. Le armi di offesa sono precisamente ciò che manca nell’arsenale inviato dall’occidente. Né, per la verità, Kiev le ha mai chieste. Le sanzioni economiche sono pesanti, ma non si sono trasformate in una campagna a tutto campo contro le esportazioni energetiche della Russia, come quella che l’amministrazione Obama scatenò contro l’Iran nel 2012. Le sanzioni danneggiano l’economia russa, confermando che l’occidente faceva sul serio quando diceva che Putin avrebbe pagato il prezzo di un attacco. Ma al di là di questo, c’è una deliberata ambiguità nella loro logica e nei loro obiettivi.
Anche se il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha espresso la sua indignazione all’idea che personaggi malvagi come Putin guidino stati moderni, l’occidente è ancora restio a prendere in considerazione l’idea di puntare a un cambio di regime. È un’importante concessione alla diplomazia. Se la caduta di Putin diventasse l’obiettivo politico dell’occidente, sarebbe un ritorno della tesi della fine della storia nella sua forma più militante. Anzi, sarebbe un ritorno a cent’anni fa, alle origini dell’economia usata come arma, alla guerra in nome del liberalismo contro la Germania e i suoi alleati nella prima guerra mondiale. Non per niente, il blocco economico fu lo strumento principale con cui la Società delle nazioni tentò di imporre la pace. Le reti delle comunicazioni, dei trasporti e dei commerci furono usate per eliminare chiunque cercasse di deviare dalla marcia in avanti della modernità liberale.
Come intuirono i critici dell’ordine tra le due guerre, per esempio il giurista tedesco Carl Schmitt, l’egemonia delle potenze vincitrici nel 1918 portava con sé la minaccia della prima fine della storia. Anche Churchill, Stalin e Hitler lo intuirono. Negli anni trenta, per sfidare quell’ordine e far ripartire la storia, Hitler, Mussolini, i giapponesi e l’Unione Sovietica fecero sforzi enormi, sproporzionati rispetto a qualsiasi cosa abbia pensato Putin. Tuttavia, le potenze dell’Asse furono travolte da una schiacciante superiorità materiale, che preparò il terreno per la guerra fredda.
Nel 2022, se Putin dovesse cadere sull’onda della frustrazione militare e della stanchezza economica, se al suo regime ne subentrasse uno filoccidentale e pronto a fare la pace, tutti quelli che negli anni hanno criticato Fukuyama con argomenti a buon mercato dovrebbero correre a chiedergli scusa. Sarebbe la più clamorosa e inaspettata rivincita della sua previsione, e cioè che il modello occidentale avrebbe trionfato senza ricorrere apertamente alla guerra.
Se però il conflitto non sfocerà in una terza guerra mondiale e il regime di Putin non crollerà, allora l’unica scelta sarà percorrere la difficile strada della democrazia e della pacificazione. Sarà un boccone duro da digerire per entrambe le parti. Come con il trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918, che per la prima volta diede un riconoscimento internazionale allo stato sovrano ucraino, probabilmente saranno necessari compromessi duri e divisivi. Alla luce dei crimini degli invasori russi, sarà un test decisivo per il sistema politico ucraino. Ma sarà in quei compromessi, e nella visione del futuro che sottendono – per l’Ucraina e per la Russia, per l’Europa e per la Nato – che si definirà il significato di questa guerra. Sarà in questo processo che si farà davvero la storia. ◆fsa
Adam Tooze è uno storico britannico. Dirige l’European institute della Columbia university, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’anno del rinoceronte grigio. La catastrofe che avremmo dovuto prevedere (Feltrinelli 2021).
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Questo articolo è uscito sul numero 1457 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati