Alcuni paragoni storici si fanno per gioco, altri richiedono elaborate giustificazioni accademiche, altri ancora influenzano il nostro mondo. Gli insegnamenti che ne ricaviamo sono così pervasivi da diventare parte del nostro armamentario intellettuale e delle nostre istituzioni. L’Unione europea, per esempio, invoca di continuo la necessità di evitare il rischio di un ritorno alla violenza politica della prima metà del novecento. La Nato resta ancora oggi un’organizzazione che ha l’obiettivo di tenere “i russi fuori, gli statunitensi dentro e i tedeschi giù”, per citare le parole del suo primo segretario generale. Sono tutti imperativi che nascono dall’esperienza del novecento.
Per la politica economica ci sono due momenti formativi di questo tipo. Il primo è la grande depressione degli anni trenta, da cui abbiamo imparato che la domanda aggregata, l’offerta di moneta e il commercio mondiale non si possono lasciare implodere. Queste lezioni sono state alla base delle risposte alla crisi del 2008 e del 2020.
L’altro momento formativo per la politica economica sono gli anni settanta. Non è esagerato dire che il repertorio della politica economica attuale è un distillato dell’esperienza traumatica di quegli anni. Tra il 1971 e i primi anni ottanta il sistema di regolazione internazionale dei cambi di valuta, fissato nel dopoguerra con gli accordi di Bretton Woods, saltò, le valute impazzirono, l’inflazione e la disoccupazione schizzarono alle stelle. Il disordine fu ricomposto a partire dal 1979 con la somministrazione di una dose senza precedenti di misure monetarie restrittive, che mandarono in recessione gli Stati Uniti e buona parte dell’Europa.
Nei decenni successivi evitare un ritorno agli anni settanta è stata l’idea fissa della politica economica. E sembrava anche che ci fossimo riusciti: dopo uno shock mai visto come quello causato dalla pandemia di covid-19, all’inizio del 2021 pensavamo di esserci finalmente liberati dalla morsa di questa similitudine storica. La storia, però, si muove velocemente. L’anno scorso l’inflazione ha ripreso a correre e sono ricominciati i richiami agli anni settanta. I politici e gli esperti dicono che abbiamo aspettato troppo a intervenire, e che le banche centrali dovranno rialzare drasticamente i tassi d’interesse, facendoci cadere in recessione.
A prima vista, le somiglianze sono evidenti. Come negli anni settanta, il mercato delle materie prime è sconvolto dalla guerra: all’inizio del 2022 i prezzi negli Stati Uniti sono aumentati di più dell’8 per cento su base annua. E la politica economica e monetaria espansiva è durata forse troppo tempo. Sotto l’apparenza, però, si nascondono enormi differenze. Considerare gli anni settanta come un insieme di dati da cui trarre insegnamenti tecnici vuol dire scambiare per un esperimento in laboratorio quella che, in realtà, è stata una guerra di potere. Quella guerra di potere si concluse con la vittoria decisiva delle forze della disinflazione, cioè del contenimento dell’inflazione. Forse poteva andare in un altro modo. Ma, nel bene e nel male, non si può tornare indietro.
L’esperienza degli anni settanta è alla base del pensiero, oggi dominante, secondo cui è importante prevenire la formazione di aspettative inflazionistiche. È un punto cruciale, perché sono le aspettative dei lavoratori e delle aziende sull’andamento dell’inflazione futura ad alimentare gli aumenti dei prezzi e dei salari, che a loro volta generano ulteriore inflazione. Per fare in modo che la banca centrale intervenga in tempo per bloccare l’accelerazione dell’inflazione è importante che il controllo della politica monetaria sia affidato a un’istituzione centrale indipendente, formata da tecnocrati di orientamento generalmente conservatore, non agli elettori, che ovviamente preferirebbero non ingoiare il boccone amaro della disinflazione.
Il potere dei sindacati
Naturalmente, la storia da cui traiamo insegnamento è a sua volta oggetto d’interpretazione e discussione. Da qui nasce la domanda: gli anni settanta sono stati davvero così disastrosi?
Per quanto riguarda l’economia statunitense e quella mondiale, i danni maggiori si concentrarono nel biennio tra il 1973 e il 1975. Per il resto, la crescita fu per certi versi più alta di quella dei decenni successivi. In molti paesi, inoltre, gli anni settanta furono un’epoca di progresso sociale, con l’ampliamento dei sistemi di welfare. Perfino l’inflazione aveva dei vantaggi: chi aveva comprato una casa con un mutuo se la passava bene, e lo stesso si può dire dei contribuenti, che negli anni ottanta dovettero sobbarcarsi un ammontare molto più basso del debito pubblico in termini reali. Fu negli anni settanta che i debiti accumulati dal Regno Unito e dagli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale furono finalmente estinti.
Quel decennio fu anche il momento in cui il potere dei sindacati raggiunse il suo massimo. Fu l’ultima volta in cui, su entrambe le sponde dell’Atlantico, il capitalismo democratico fu tenuto a freno da un vero potere di controllo rappresentato dal lavoro organizzato. Questo potere si manifestava a volte sotto forma di grandi scioperi, anche se quella dei lavoratori era una battaglia persa: soprattutto negli Stati Uniti, i salari reali erano in calo per effetto dell’automazione e della tecnologia digitale, della pressione competitiva della globalizzazione e dell’aumento dei prezzi. I sindacati, però, continuavano ad avere grande voce in capitolo sulla politica economica, cosa oggi inimmaginabile.
Gli anni settanta furono anche caratterizzati da un ribilanciamento dell’economia mondiale, che aveva a lungo favorito le ex potenze coloniali a scapito degli esportatori di materie prime, freschi di decolonizzazione. L’embargo petrolifero dell’Opec fu senza dubbio uno shock, ma può essere visto anche come una correzione doverosa di quegli squilibri di fondo. Quando diciamo che la politica economica ha imparato la lezione degli anni settanta, di solito ci riferiamo a un’interpretazione conservatrice dei suoi presunti fallimenti durante quel periodo. Negli anni settanta la sensazione diffusa tra le élite economiche e politiche occidentali era di aver perso il controllo della situazione, di non essere riuscite ad arginare le forze di opposizione, sia in patria sia a livello internazionale.
Senza alternativa
Secondo questa interpretazione degli eventi, le politiche compiacenti delle banche centrali e dei governi a cavallo tra gli anni sessanta e settanta – una combinazione di tassi d’interesse bassi e spesa pubblica fuori controllo – avevano aggravato i problemi provocati dagli shock economici, come l’impennata dei prezzi del petrolio causata dall’Opec nel 1973, scatenando un’inflazione galoppante. La politica era stata messa all’angolo da potenti gruppi d’interesse come l’Unione nazionale dei minatori britannici, che nel 1974 aveva sfidato e fatto cadere un governo conservatore. La Commissione trilaterale, un gruppo di studio formato nel 1973 dai leader del Giappone, dell’Europa occidentale e del Nordamerica, aveva ammonito con toni minacciosi che la democrazia stava diventando ingovernabile. Le aspettative sullo stato sociale e sui consumi erano troppo alte, e l’economia e la politica non erano in grado di soddisfarle. Era a rischio la sostenibilità stessa del capitalismo democratico.
In questo scenario apocalittico i banchieri centrali indipendenti assunsero il ruolo dei salvatori. In Europa la Bundesbank, la banca centrale tedesca, mantenne per tutto il decennio una linea conservatrice improntata al contenimento dell’inflazione. Nell’ottobre 1979 la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) guidata da Paul Volcker, appena nominato dal presidente Jimmy Carter, cambiò radicalmente approccio. Alzando al 19 per cento i tassi sui fondi federali (i tassi d’interesse a brevissimo termine usati nei prestiti tra banche statunitensi), Volcker fece scarseggiare il credito ed eliminò l’inflazione dal sistema.
Come Rudiger Dornbusch e altri maestri della politica economica contemporanea amavano ripetere, l’obiettivo non era solo fermare l’inflazione, ma respingere l’attacco della politica, mettere fine a quello che Dornbusch chiamava democratic money, denaro democratico. Provocando il brutale shock del 1979-1980, la Fed, secondo Dornbusch e i suoi seguaci, aveva dimostrato di essere al di sopra degli interessi di parte e di non farsi condizionare dall’opinione pubblica. Evidentemente è una ricostruzione interessata. Sarebbe più esatto dire che le banche centrali lavorarono per quella parte dell’elettorato composta da risparmiatori, imprenditori e investitori – tutti scontenti dell’inflazione – e per l’opinione pubblica conservatrice che voleva un ritorno alla stabilità. Le banche centrali indipendenti non erano davvero al di sopra della politica: erano solo il prolungamento della politica conservatrice con mezzi tecnocratici e non democratici.
Sia in Europa sia negli Stati Uniti il movimento dei lavoratori non si è più ripreso dallo shock deflazionistico del 1979
I risultati economici di questa controrivoluzione furono tutt’altro che indiscutibili. All’inizio degli anni ottanta la crescita crollò. La competitività di interi settori industriali fu azzoppata dall’impennata dei tassi d’interesse e dei tassi di cambio. La disoccupazione toccò i livelli più alti dal dopoguerra. Era una situazione difficilissima, ma dal punto di vista conservatore “non c’era alternativa”, come diceva sempre la prima ministra britannica Margaret Thatcher. Se i conflitti degli anni settanta fossero continuati, osservava, si sarebbe andati incontro a un’inflazione ancora più rapida, mettendo a rischio l’assetto istituzionale. Era in pericolo l’ordine della guerra fredda, e se per evitare il peggio bisognava trasformare la politica monetaria in uno strumento più spietato di lotta politica, pazienza. Andando allo scontro con i minatori nel 1984-1985, Thatcher dichiarò guerra ai nemici interni, proprio come aveva dichiarato guerra al nemico sovietico all’esterno. La posta in gioco era un riequilibrio definitivo dei rapporti di forza economici e sociali e l’esclusione di qualsiasi alternativa al dominio della proprietà privata e dei mercati.
L’alternativa che Thatcher voleva scongiurare era esemplificata dal governo socialista del presidente François Mitterrand in Francia. Eletto nel 1981 con l’appoggio del Partito comunista francese, Mitterrand aveva dato vita a un esperimento sociale ed economico che prevedeva la nazionalizzazione di parti dell’industria e della finanza. Attraverso una politica industriale centralizzata, sperava di rilanciare la crescita e contenere l’inflazione collaborando con i sindacati. Era una scommessa, ma la politica della Fed e della Bundesbank sui tassi d’interesse e l’attrattiva esercitata sugli investitori internazionali dalla rivoluzione del mercato la rendevano un vero e proprio azzardo. Nel 1983 Mitterrand gettò la spugna sotto le pressioni dei mercati obbligazionari. Lo slogan thatcheriano “non c’è alternativa”, più che una descrizione dei fatti, era una chiamata alle armi per cancellare le alternative.
La grande moderazione
Sia in Europa sia negli Stati Uniti il movimento dei lavoratori non si è più ripreso dallo shock deflazionistico del 1979. La globalizzazione, cominciata già negli anni settanta, ha spinto al ribasso prezzi e salari. Il prolungato boom giapponese ha subìto un brusco arresto nel 1991 con lo scoppio della bolla immobiliare. L’anno seguente l’accordo per formare l’eurozona ha istituzionalizzato la deflazione in Europa, trasformando di fatto l’obiettivo di bassa inflazione della Banca centrale europea (Bce) in una sorta di requisito costituzionale. All’inizio degli anni duemila Ben Bernanke, futuro presidente della Fed, si permetteva di dichiarare che la grande inflazione degli anni settanta aveva lasciato il posto all’era della grande moderazione, un quadro valido in realtà più per chi aveva redditi bassi o nella media che per i ricchi, i quali vedevano impennarsi guadagni e patrimoni. Nel 2006 l’investitore miliardario Warren Buffett ha sintetizzato in modo lapidario la storia della politica economica a partire dagli anni settanta: “C’è una guerra di classe, d’accordo, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, quella che sta facendo la guerra. E la sta vincendo”.
Le forze della disinflazione hanno vinto su tutta la linea. Ma invece di ammorbidirsi, la linea conservatrice degli anni settanta è stata riproposta e ripetuta all’infinito, come un mantra. Implicitamente, il messaggio era che se le banche centrali avessero abbassato la guardia si rischiava un ritorno al passato. Gli economisti delle banche centrali presentavano di continuo previsioni inflazionistiche esagerate, favorendo la scelta di politiche restrittive. Nel 2008, mentre i sistemi bancari europei e statunitensi stavano crollando, i banchieri centrali continuavano a invocare l’aumento dei tassi per contrastare i rincari delle materie prime e dell’energia. Nel 2011, nel pieno della crisi dell’eurozona, la Bce si era convinta ad alzare i tassi d’interesse per timore di un’inflazione galoppante.
Solo all’indomani della crisi finanziaria globale, quando ormai gli anni settanta erano lontani, il paradigma ha cominciato finalmente a cambiare. Dopo la crisi del 2008 la ripresa è stata dolorosamente lenta, specialmente in Europa. Nonostante un’enorme espansione del bilancio della banca centrale, l’inflazione è rimasta ben sotto il limite del 2 per cento fissato dalla Bce. In Europa le aspettative sull’inflazione hanno rischiato di scivolare in territorio negativo, segnalando una stagnazione a lungo termine, sul modello giapponese. Nel 2013, durante uno storico discorso al Fondo monetario internazionale, l’economista Larry Summers ha definito la nuova epoca un’era di stagnazione secolare. Il rischio non era più l’impennata dei prezzi e dei salari, ma un livello degli investimenti insufficiente a sostenere la crescita. A meno di un intervento esterno della banca centrale, sotto forma di un taglio dei tassi d’interesse e di uno stimolo monetario, l’economia sarebbe scivolata in recessione. L’alternativa migliore, secondo Summers, erano gli investimenti finanziati dal governo, una posizione che avrebbe trovato d’accordo molti militanti di sinistra degli anni settanta.
Era una revisione radicale del copione seguito dopo gli anni settanta, e sembrava confermata dai dati. Tra il 2013 e lo shock del covid-19 del 2020, le banche centrali hanno parlato a più riprese di “normalizzare” la politica monetaria, provando a rimuovere lo stimolo introdotto qualche anno prima, ma ogni volta hanno rischiato di sconvolgere i mercati finanziari e di spingere l’economia in recessione. Nel frattempo, invece d’impegnarsi in piani di spesa pubblica incontrollati – un’accusa tipica degli anni settanta – i politici, soprattutto in Europa, hanno scelto sistematicamente una politica di bilancio restrittiva. La pressione di prezzi e salari è rimasta ai minimi.
Nel 2021, con l’epidemia di covid-19, che ha minacciato d’innescare una colossale recessione globale, sia la Bce sia la Fed si sono date nuovi obiettivi sull’inflazione, più tolleranti. La Bce ha proposto di perseguire l’obiettivo del 2 per cento: non di più, ma neanche di meno. La Fed si è data invece l’obiettivo di un’inflazione media, che in alcuni periodi può crescere per compensare quelli in cui è rimasta al di sotto dei limiti fissati. Dando finalmente l’addio agli anni settanta, il presidente della Fed, Jerome Powell, ha dichiarato che durante il suo mandato non si aspettava di vedere gli stessi livelli d’inflazione che avevano caratterizzato gli anni della sua giovinezza. Era il gennaio 2021 e sembrava una svolta storica. A poco più di un anno di distanza, però, il quadro è completamente cambiato. L’inflazione ha accelerato a ritmi che non si vedevano da quarant’anni, e i richiami agli anni settanta spuntano di continuo negli editoriali dei giornali.
Comunemente si pensa che l’inflazione attuale sia una conseguenza dello scompiglio senza precedenti causato dal covid-19. Le catene di approvvigionamento sono saltate, con i relativi squilibri di domanda e offerta. Eppure le somiglianze con gli anni settanta sono innegabili: oggi come allora, il prezzo dell’energia sta guidando l’impennata dell’inflazione; oggi come allora, una guerra sta bloccando l’offerta; anche nel 2021 la politica economica e monetaria è intervenuta per sostenere la domanda.
Il lavoro ha perso definitivamente il suo potere di controllo mentre la tecnocrazia ha una libertà d’azione sempre più grande
Le questioni cruciali sono due: fino a che punto la prima ondata di rincari dell’energia e delle materie prime si estenderà ad altre categorie di beni, e se l’aumento dei prezzi finirà per autoalimentarsi. Gli occhi sono puntanti sulle aspettative inflazionistiche, l’ancora che saltò negli anni settanta. Finora, le aspettative a medio termine (in un orizzonte temporale di cinque anni) sono rimaste pressoché invariate, ma quelle a lungo termine stanno cambiando. A Washington e a Bruxelles è suonato un campanello d’allarme.
Ma se le pressioni inflazionistiche aumentano, i motivi di questa spinta verso l’alto sono indicativi. Nel 2021 e nel 2022 hanno prevalso due fattori su entrambe le sponde dell’Atlantico. Uno è il costo delle materie prime e dell’energia; l’altro sono i margini di profitto. Le imprese stanno sfruttando la crescita della domanda per fare cassa in ogni modo possibile. Quello che manca è una pressione salariale sostenuta. Negli Stati Uniti le paghe sono aumentate, ma non come i prezzi. All’inizio del 2022 i salari reali erano al di sotto della tendenza al rialzo che sembravano avere prima del covid-19. In Europa i sindacati stanno cominciando ad avanzare richieste più significative. Ma anche nel vecchio continente la crescita dei salari è indietro rispetto a quella dei prezzi.
Il facile paragone con gli anni settanta ignora il cambiamento fondamentale nell’equilibrio dei rapporti di forza economico-sociali. Mentre negli anni settanta la risposta all’inflazione fu una serie di scioperi e forti richieste di allargamento del welfare, oggi la crisi del costo della vita è una questione che riguarda i mezzi d’informazione, le campagne su Twitter e le iniziative filantropiche, non più la protesta sociale o la lotta operaia. Nel 2022 negli Stati Uniti la spinta radicale dei primi mesi dell’amministrazione Biden si è in gran parte esaurita. In Europa, di fronte alle difficoltà delle fasce più penalizzate dagli improvvisi rincari dell’energia, la politica propone rimedi come un tetto ai prezzi del settore e un aumento dei sussidi. Quando però si tratta d’introdurre cambiamenti in grado di alterare in modo permanente gli equilibri delle relazioni industriali, come l’adeguamento dei salari all’andamento dell’inflazione o misure per rafforzare il potere negoziale dei sindacati, ecco che torna la “lezione degli anni settanta”.
Questi meccanismi, avvertono le banche centrali, rischiano di avviare una spirale di aumenti di prezzi e salari. È importante capire – ci ricordano – che il mutato equilibrio tra domanda e offerta sul mercato dell’energia significa che i consumatori dovranno rassegnarsi a vivere con un minor potere d’acquisto. Meno storie faranno, più sarà facile la stabilizzazione. Di sicuro nessuno vorrà sorbirsi un’altra volta l’amara medicina somministrata da Volcker nel 1979. Alcuni banchieri centrali, come Andrew Bailey della Banca d’Inghilterra, hanno chiesto senza mezzi termini ai lavoratori di rinunciare alle rivendicazioni salariali, invocando di fatto un taglio dei salari reali in un momento di forte crescita dei profitti.
Non a caso, sia la Bce sia la Fed finora hanno evitato di usare parole che rimandano alla guerra di classe evocata da Buffett. I paragoni con gli anni settanta sono rimasti in gran parte confinati al dibattito intellettuale. Con un certo buon senso, le due grandi banche centrali scommettono sul fatto che la crisi sarà transitoria, che le condizioni economiche di base degli ultimi decenni resteranno invariate, e che riusciranno a garantire un atterraggio morbido attraverso un moderato intervento monetario. Dopo tutto, negli ultimi cinquant’anni il caso di Volcker è stato l’unico in cui l’inflazione è stata repressa con la forza attraverso un drastico aumento dei tassi d’interesse. Alzando leggermente i tassi la Fed e la Bce sperano che i mercati facciano il loro lavoro, che i prezzi scendano e che la crescita salariale si raffreddi. Questo permetterebbe di arrivare a una situazione di equilibrio evitando che l’inflazione determini ulteriori tagli ai salari reali o che, all’opposto, una recessione faccia aumentare la disoccupazione. La Fed e la Bce non stanno lavorando a una controrivoluzione sulla falsariga degli anni ottanta, perché sperano che quella originale sia ancora in atto.
Il vecchio equilibrio
Mentre le banche centrali percorrono questo sentiero stretto, i falchi dell’inflazione continuano a sostenere che il rischio maggiore è un’accelerazione dei prezzi. Gli indizi sono francamente inconsistenti. Tutte le stime più serie prevedono un rallentamento dell’inflazione nel 2023. Se questa previsione si rivelerà corretta, se le banche centrali resisteranno e riusciranno a tenere sotto controllo l’inflazione, forse finalmente prenderemo atto che nel bene e nel male la storia è andata avanti e che il vecchio equilibrio del capitalismo democratico, che secondo la vulgata è andato in crisi negli anni settanta, è stato superato per sempre. Nel nuovo ordine economico il lavoro ha perso definitivamente il suo potere di controllo mentre la tecnocrazia ha una libertà d’azione sempre più grande.
Se così fosse, sarebbe una sconfitta per la democrazia e giustificherebbe la richiesta di un riequilibrio dei rapporti economici e di una democratizzazione della politica economica. Ora, però, la priorità è fare in modo che chi è alla guida della politica economica non tiri il freno troppo forte. Per questo sarebbe bene liberarsi dei fantasmi del passato. Se di fronte a un’inflazione che si avvicina al 10 per cento i banchieri centrali manterranno i nervi saldi e riusciranno a garantire un atterraggio morbido, forse seppelliremo i paragoni con gli anni settanta e la loro falsa rappresentazione della storia. ◆ fas
Adam Tooze è uno storico britannico. Dirige l’European institute della Columbia university, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’anno del rinoceronte grigio. La catastrofe che avremmo dovuto prevedere (Feltrinelli 2021).
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Questo articolo è uscito sul numero 1474 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati