Il 3 gennaio, a New York, Sam Bankman-Fried si è dichiarato non colpevole di una serie di accuse legate al crollo della Ftx, la grande borsa di criptovalute di cui è stato fondatore e amministratore delegato. Il caso è diventato quindi, come spesso accade, una storia statunitense. Le Bahamas, protagoniste degli ultimi giorni della Ftx, sono passate in secondo piano. Ma la torbida relazione tra un’azienda considerata fino a poco tempo prima l’avanguardia della finanza digitale e le Bahamas – un paese di quattrocentomila abitanti sparsi su settecento isole, a ottanta chilometri dalla Florida – non è un fatto accidentale. È la dimostrazione che i Caraibi sono stati a lungo il laboratorio di Frankenstein del capitalismo globale.
La regione è stata la prima al mondo a subire le conseguenze della conquista occidentale e dello schiavismo nelle piantagioni. Nel seicento e nel settecento le Bahamas furono un rifugio leggendario di pirati e contrabbandieri. Il novecento, invece, è stato segnato dall’ascesa della potenza statunitense e dai conflitti legati alla guerra fredda. Più volte il fragile arcipelago è stato devastato da uragani, eruzioni vulcaniche e terremoti, che hanno provocato distruzione, ma hanno anche alimentato l’edilizia e nuove ondate d’investimenti. Ogni anno la spettacolare bellezza dei Caraibi attira milioni di turisti in cerca di spiaggia e sole. Casinò e resort sgomitano tra quello che resta delle piantagioni, le fabbriche chiuse e i porti franchi. Megayacht, motoscafi, navi da crociera, navi mercantili, voli turistici e aerei privati permettono a persone, denaro e beni di circolare liberamente.
I Caraibi sono caratterizzati da forti disuguaglianze. Le Bahamas, con un pil pro capite di trentamila dollari all’anno, sono uno dei paesi a più alto reddito della regione, con sacche di ricchezza estrema, come quella dei dipendenti della Ftx al resort di Albany, sull’isola di New Providence. Allo stesso tempo, il salario minimo nella capitale Nassau, pari a 250 dollari alla settimana, è quello di un paese a reddito medio-basso. Questo però basta ad attirare decine di migliaia di migranti da Haiti, che vivono di stenti nelle baraccopoli spuntate come funghi intorno a ogni città e insediamento delle Bahamas.
Se state cercando di sfuggire alla legge, anche nell’epoca della sorveglianza elettronica, gli isolotti sperduti e gli aeroporti privati dell’arcipelago offrono grandi opportunità per la privacy. Negli anni settanta e ottanta la regione fu inondata dai dollari dei cartelli della droga colombiani. Ma i soldi veri, nell’ordine di migliaia di miliardi di dollari, sbarcano in paesi come le Bahamas grazie a un segreto bancario costruito attentamente e difeso strenuamente. Il modello economico bahamense si fonda su un equilibrio precario tra povertà e ricchezza estreme, in una regione che un tempo era il terreno di battaglia di tensioni geopolitiche e oggi deve affrontare la sfida storica della crisi climatica. I paradisi fiscali e i centri finanziari offshore furono creati per reazione alle imposizioni fiscali e legali del novecento. I primi nacquero in Lussemburgo, nel Liechtenstein e in tutto l’impero britannico tra le due guerre mondiali, quando i ricchi, per la prima volta, avvertirono l’esigenza di proteggere il loro denaro dalla pesante tassazione dei nuovi stati democratici, che dovevano finanziare le spese militari. Le prime società di gestione patrimoniale aprirono a Nassau negli anni trenta ed ebbero un ulteriore impulso negli anni cinquanta, quando i controlli sulle borse e sui capitali spinsero a cercare nuovi modi per spostare il denaro.
Per circolare liberamente, il capitale ha bisogno di una legislazione, cioè deve avere il riconoscimento di un sistema giuridico. Il common law britannico (basato sui precedenti della giurisprudenza) è il più adatto ad amministrare in modo flessibile contratti e diritti di proprietà a livello internazionale. Non è un caso che molti paradisi fiscali si trovino in quelli che un tempo erano avamposti dell’impero britannico.
Ma la legge da sola non basta. Prendiamo la Giamaica: è anglofona e governata dal common law, ma nessuno la considera un paradiso fiscale offshore. Il punto non è solo quale codice giuridico si usa, ma a quali usi può essere piegato. Che probabilità ci sono che possa servire per la tassazione, la regolamentazione o addirittura l’espropriazione? La questione è particolarmente importante in uno stato postcoloniale, dove la maggioranza della popolazione non è solo molto povera, ma discende dagli schiavi. Dopo l’arrivo al potere di Fidel Castro a Cuba, nel 1959, c’era il timore che la proprietà privata nei Caraibi fosse seriamente in pericolo. Quando la Giamaica ottenne l’indipendenza nel 1962, il suo sistema politico era troppo fragile per attirare i grandi capitali internazionali. In tutta la regione la combinazione di nazionalismo, radicalismo nero e socialismo costituiva una miscela esplosiva, e la minaccia della rivoluzione provocò l’intervento aggressivo delle potenze straniere. Per cominciare, quello degli Stati Uniti nella Repubblica Dominicana ai danni dell’impero spagnolo.
Ma neanche i possedimenti britannici erano al riparo. Nel 1983 il regime marxista fratricida di Grenada, in cui ancora teneva banco un governatore generale di nomina britannica, fu rovesciato da un intervento militare guidato dagli Stati Uniti e appoggiato da Barbados, Giamaica e Dominica, tutti e tre ex territori britannici. Il socialismo era stato schiacciato, il common law aveva prevalso, ma i grandi capitali non amano le turbolenze.
Un modo per evitare i pericoli della libertà era restare sotto l’autorità britannica, un’opportunità allettante per le minoranze bianche, che si sentivano minacciate da un governo scelto dalla maggioranza. Oggi i territori d’oltremare hanno assemblee parlamentari e capi di governo, ma c’è un governatore con funzioni di rappresentante locale della monarchia britannica che esercita un controllo sugli affari esteri e su tutto ciò che riguarda gli interessi economici internazionali.
Sia le Isole Vergini Britanniche sia le Bermuda hanno conservato lo status di territori d’oltremare e hanno creato fiorenti centri finanziari offshore considerati tra i più scandalosi rifugi del capitale globale. L’esempio più eclatante, però, sono le isole Cayman, che fino all’indipendenza della Giamaica erano governate da Kingston, ma dopo il 1962 scelsero di restare una colonia e, successivamente, un territorio d’oltremare. Da allora sono diventate il centro internazionale per la registrazione dei fondi speculativi hedge fund. In breve, il denaro globale ha una preferenza dichiarata non solo per il sistema giuridico britannico, ma anche per le comodità del potere imperiale, sia pure in versione ridotta.
In questo scenario le Bahamas sono l’unico caso di stato postcoloniale a maggioranza nera che è anche un centro finanziario di primo piano, tra i grandi paradisi fiscali del mondo. Il vantaggio delle Bahamas è avere sia un sistema politico stabile sia un alto reddito pro capite: per essere precisi, il più alto di qualsiasi stato indipendente a maggioranza nera nel mondo. Tra i grandi paesi caraibici è l’unico che dopo l’indipendenza è riuscito a fare a meno dell’intervento del Fondo monetario internazionale (Fmi).
Importanza sopravvalutata
Si sarebbe tentati d’immaginare un circolo virtuoso, in cui i servizi finanziari offshore generano ricchezza che a sua volta è alla base della stabilità democratica. Questo, però, vorrebbe dire sopravvalutare l’importanza dei servizi finanziari come motore della crescita economica. Nelle Bahamas i servizi finanziari contribuiscono solo al 10-15 per cento del pil e al 2 per cento dell’occupazione. La scarsa incidenza sull’economia locale è una caratteristica specifica della finanza offshore. D’altronde la sua ragion d’essere è eludere il fisco e ridurre al minimo i vincoli territoriali.
Molti paradisi fiscali si trovano in paesi che appartenevano all’impero britannico
In realtà, oltre al fatto di aver ereditato il diritto comune britannico e di aver evitato la spirale della politica rivoluzionaria e controrivoluzionaria, ciò che ha dato al sistema finanziario offshore il privilegio della stabilità politica è stata la ricchezza generata dal turismo e dagli investimenti immobiliari stranieri. Da questo punto di vista, la chiave del successo è stata la vicinanza agli Stati Uniti. Bimini, la catena di isole più a ovest delle Bahamas, si trova ad appena ottanta chilometri da Miami. Se il mare è calmo, si può completare la traversata in un paio d’ore in traghetto o su una barca privata. Il volo da Miami a Nassau dura un’ora. L’80 per cento dei milioni di visitatori che ogni anno arrivano alle Bahamas viene dagli Stati Uniti. La moneta locale, il dollaro bahamense, è agganciata al dollaro statunitense con un cambio di uno a uno. Le catene di fornitura, i prodotti alimentari e il sistema scolastico sono americanizzati. La storia coloniale sarà pure britannica, ma dal 1945 l’influenza predominante è statunitense.
Il turismo e l’edilizia contribuiscono a più del 60 per cento del pil bahamense e producono profonde trasformazioni nel paese. Il turismo è un’attività ad alta intensità di capitale, che richiede miliardi di dollari d’investimenti diretti esteri e l’impiego di una significativa quantità di manodopera. Sono le fortune del turismo e dell’edilizia a rendere le Bahamas un paese sufficientemente stabile da essere anche un centro finanziario offshore attraente. Il residence con attico in cui era rintanata la Ftx non è solo uno sfondo. È una parte essenziale della storia.
Il sistema poggia su un equilibrio molto delicato. L’economia del turismo, come quella finanziaria, è esposta a shock improvvisi e drammatici, ma proprio perché si basa sull’impiego di manodopera locale, grandi infrastrutture e compravendita di terreni – e quindi sulla trasformazione dell’ambiente – provoca conflitti diversi rispetto a quelli generati dall’attività bancaria offshore. Ha a che fare piuttosto con l’incendiaria politica razziale del post-colonialismo, soprattutto nel caso delle Bahamas, a causa della vicinanza non solo alle coste americane ma anche al sud degli Stati Uniti, in cui le battaglie contro la segregazione e i diritti civili hanno storicamente coinciso con il fermento dei movimenti indipendentisti caraibici.
Tra gli anni trenta e i sessanta, prima dell’indipendenza, le élite locali bahamensi e i loro finanziatori stranieri avevano creato un’economia turistica e finanziaria concepita come un’enclave basata sulla segregazione razziale. A Nassau un importante esponente della banda d’affari bianca nota come Bay street boys usò i profitti realizzati con il contrabbando del rum all’epoca del proibizionismo per costruire un muro di tre metri che divideva la parte bianca della città da quella nera. L’atto costitutivo del progetto di sviluppo di un’area di ventimila ettari a Freeport, sull’isola di Grand Bahama, autorizzava i proprietari a gestire in autonomia la loro politica d’immigrazione. Il complesso turistico-industriale era rigidamente segregato. Gli interessi criminali che nel 1959 si spostarono da Cuba alle Bahamas si assicurarono che i tavoli da gioco fossero piantonati dai loro uomini di Las Vegas e Miami.
Tutto questo provocò la resistenza della popolazione locale, che sfociò in un movimento per l’organizzazione del lavoro, i diritti civili, il principio di maggioranza e l’indipendenza, guidato dal Partito liberale progressista (Plp). Nel 1958 questa sfida allo status quo prese la forma di uno sciopero generale guidato dai tassisti. Nel 1960 il Plp si unì al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti. Nel 1964 Martin Luther King soggiornò a Bimini per preparare il suo discorso d’accettazione del premio Nobel. Il divo del cinema Sidney Poitier fece campagna per il movimento dei diritti civili sia a Hollywood sia alle Bahamas, dov’era cresciuto. Nel frattempo Londra comunicò che non avrebbe sostenuto un regime bianco di minoranza ormai fuori dalla storia. Nel 1967 il Plp formò il primo governo di maggioranza e nel 1973 portò il paese all’indipendenza.
Con il Plp che invocava lo sviluppo economico e l’emancipazione nera, nel distretto finanziario di Nassau montava il nervosismo. Nel 1967 ci fu una breve fuga dalla moneta bahamense e il timore di un ritiro dei capitali dalle banche di Nassau. Le Bahamas persero il primato finanziario a vantaggio delle Cayman. Nonostante un ambizioso programma di nazionalismo economico, tuttavia, il Plp non fece niente per arginare la finanza offshore. Anche se nel paese arrivavano meno soldi rispetto alle Cayman, i flussi di capitali continuavano a essere enormi. Nel maggio 1976 i prestiti offshore registrati dalle banche statunitensi nei Caraibi erano più di quelli registrati a Londra. Se nel 1965 c’erano appena cinque filiali di banche statunitensi nella regione, nel 1991 erano quattrocento solo nelle Bahamas, con 287 miliardi di dollari di depositi. La vera battaglia per il futuro delle isole, tuttavia, non aveva al centro le banche internazionali o il registro delle imprese, ma l’economia reale del turismo, dei casinò e degli immobili offshore. L’indipendenza coincise con il primo shock del prezzo del petrolio. In nome del suo programma nazionalista, il Plp vietò la vendita di terra agli stranieri e tolse a Freeport il diritto di regolare autonomamente l’immigrazione. Gli investitori statunitensi, che consideravano le Bahamas come un’appendice offshore del sistema razziale del sud degli Stati Uniti, protestarono. Un titolo del New York Times nell’estate 1973 recitava: “L’indipendenza rovinerà la Bahamas?”. Il governo del Plp rispose con un piano nazionale di sviluppo economico, investendo nella costruzione di alberghi e lanciando un programma di formazione per insegnare al personale di servizio locale il modo corretto per accogliere i visitatori statunitensi. Sorridere diventò una priorità nazionale.
Fu, a esser generosi, un successo parziale. Le Bahamas persero turisti a favore della Giamaica e di Puerto Rico, e furono relegate a destinazione per le navi da crociera. Il Plp fu tenuto al potere dall’orgoglio patriottico dei cittadini, ma per il governo aumentavano le difficoltà. L’ala sinistra del partito si staccò per formare un gruppo radicale nero. Sulle isole Abaco, nel nord, i segregazionisti bianchi irriducibili, contrari al governo di maggioranza di Nassau, cominciarono ad addestrare una milizia e provarono anche a reclutare mercenari dagli Stati Uniti in vista di una possibile secessione.
Alle Bahamas la finanza offshore è sempre rimasta la ciliegina sulla torta
Fu in questo scenario che le Bahamas furono inondate da un fiume di denaro, molto più pericoloso per la sovranità del paese. All’inizio degli anni settanta il cartello della droga colombiano di Pablo Escobar prese il controllo del traffico di cocaina dal Perù. Con l’espansione del mercato statunitense, il cartello si rese conto che aveva bisogno di una filiera più efficiente rispetto ai corrieri che attraversavano il confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Le dimensioni della domanda giustificavano l’investimento in una logistica a maggiore intensità di capitale. I motoscafi veloci e gli aerei leggeri che partivano dalle Bahamas erano la soluzione perfetta. Nel 1978 i contrabbandieri legati al cartello di Medellín presero il controllo di un’intera isola, Norman’s Cay, che avevano trasformato in deposito e stazione di rifornimento. Si stima che nel 1988 passasse per le Bahamas tra il 40 e l’80 per cento della cocaina e della marijuana che entravano negli Stati Uniti.
Il flusso dei guadagni del traffico di droga era immenso. Miliardi di dollari sporchi erano riciclati attraverso conti bancari e bonifici. Perfino nelle sperdute Abaco depositi in contanti, conti offshore e ricavi del turismo, dell’edilizia e dei casinò si mescolavano in un potente cocktail. Secondo uno studio del 1979 della Ford foundation, ogni anno si spostavano dagli Stati Uniti alle Bahamas venti miliardi di dollari di guadagni della droga e dell’evasione fiscale. Ancora oggi sarebbe il 200 per cento del pil bahamense. Era un giro d’affari gigantesco, che infatti stimolò una forte ripresa economica. Ma era anche una minaccia per la fragile sovranità di uno stato che aveva appena raggiunto l’indipendenza.
Nel 1980 il primo ministro Lynden Pindling dichiarò che il traffico di cocaina era “la più grande minaccia al tessuto sociale ed economico delle Bahamas. Se non lo fermeremo, ci distruggerà. Il denaro in circolazione è semplicemente troppo”. I cartelli della droga stavano corrompendo il sistema politico bahamense. La coesione sociale era a rischio: la polizia era al soldo dei cartelli, i ragazzi disoccupati cercavano ovunque soldi facili e la tossicodipendenza dilagava. Ma soprattutto, come avrebbero sperimentato in modi diversi Panamá, la Colombia e il Nicaragua, le guerre della droga erano l’anticamera dell’intervento degli Stati Uniti. All’inizio degli anni ottanta non era un segreto che la polizia di Miami spingesse per incriminare e addirittura estradare Pindling, accusato di complicità con i cartelli. Il governo degli Stati Uniti evitò d’intervenire in modo aggressivo, perché Pindling godeva di una straordinaria popolarità ed era un convinto anticomunista. Fu comunque un momento delicato per la stabilità del paese e per le relazioni con gli Stati Uniti, su cui quella stabilità si fondava.
Alla fine dei conti, il crollo della Ftx è stato solo un evento marginale
Cambio di guardia
Alla lunga gli sforzi statunitensi di mettere fine al traffico della droga pagarono. La fine della guerra fredda aveva modificato lo scenario geopolitico della regione. Nel 1992 Pindling e il Plp persero le elezioni, ma ancora prima del cambio della guardia a Nassau le élite delle Bahamas avevano deciso di migliorare la reputazione delle isole. Sotto forti pressioni degli Stati Uniti, dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e di altre istituzioni internazionali, le banche locali cominciarono, almeno in superficie, ad aumentare la trasparenza e a contrastare il riciclaggio di denaro.
Naturalmente i servizi offshore erano ancora un’ottima fonte di ricavi. E poiché il loro scopo era l’elusione fiscale, gli scandali restarono un fenomeno ricorrente. Tra il 1994 e il 2002 l’ex dittatore cileno Augusto Pinochet riciclò quasi dodici milioni di dollari attraverso due società di comodo alle Bahamas. Nel 2006 le autorità statunitensi incriminarono il presidente di una società d’investimenti offshore con sede alle Bahamas per aver riciclato più di un miliardo di dollari di fondi provenienti dall’evasione fiscale, dal traffico di droga e da frodi finanziarie. Nel 2017 lo scandalo dei Paradise papers ha squarciato il velo sulla proprietà di migliaia di società offshore create dallo studio legale Appleby, con sede nelle Bermuda, per conto di una serie di clienti, tra cui aristocratici europei, oligarchi russi e politici africani.
Le autorità bahamensi non vogliono che il loro paese sia considerato uno stato canaglia, per questo hanno deciso di rispettare almeno superficialmente le regole. Alle critiche dall’estero hanno risposto prendendo misure contro i clienti più sospetti. Il trattato di estradizione che ha permesso di arrestare Bankman-Fried e di consegnarlo agli Stati Uniti è stato firmato nel 1990 e ha segnato una svolta. Dopo essere stata criticata dall’Ocse nel 2000, Nassau ha approvato delle riforme che hanno reso la normativa bancaria più rigida. Le Bahamas hanno anche intensificato la lotta al riciclaggio del denaro: nel 2022, nonostante la vicenda della Ftx, il paese è stato cancellato dalla lista delle giurisdizioni accusate di riciclaggio di denaro e ha ottenuto il punteggio massimo nella classifica della lotta contro i reati finanziari.
Ma la finanza offshore è sempre rimasta la ciliegina sulla torta. I capisaldi dell’economia bahamense sono il turismo e l’edilizia, e il loro rilancio è stato cruciale per la stabilizzazione del paese negli anni novanta. Nel 1992 il nuovo governo di Hubert Ingraham, del Movimento nazionale libero (Fnm), abolì il divieto per i cittadini stranieri di comprare terreni sotto i cinque ettari e cominciò ad assegnare gigantesche concessioni sui terreni pubblici per incentivare il lancio dei cosiddetti “progetti ancora” nell’arcipelago. Il modello è Lyford Cay, primo quartiere di lusso recintato alla periferia di Nassau, poi replicato in tutte le isole in posti come la Baker’s Bay di Great Guana Cay, in cui celebrità come Michael Jordan hanno casa di fronte al mare.
Nel frattempo a New Providence c’è stato un sorprendente rilancio dell’albergo con casinò. Negli anni sessanta e settanta i motori dello sviluppo del settore alberghiero erano stati le grandi aziende di Las Vegas e Miami.
Negli anni novanta sia i soldi sia l’ispirazione sono arrivati da quella che, a prima vista, sembrava una fonte improbabile: il Sudafrica. Alla fine degli anni settanta nel Bophuthatswana, una sorta di stato-satellite del regime segregazionista di Pretoria, il magnate degli alberghi Sol Kerzner aveva costruito il resort Sun City, sinonimo dello sfarzo più sfrenato e bersaglio dei boicottaggi anti-apartheid. Negli anni novanta, con la fine dell’apartheid e la rimozione delle sanzioni, Kerzner sperava di espandersi e di esportare il suo modello di resort-enclave in Nordamerica. Nel 1994 costruì un grande casinò sui terreni ceduti ai nativi americani mohegan nel Connecticut, a poca distanza da New York e Boston. Sempre nei primi anni novanta comprò una quota del fatiscente resort Paradise Island, alle Bahamas. Dopo un investimento di più di un miliardo di dollari ribattezzò la struttura Atlantis, che diventò il modello di un nuovo tipo di esperienza turistica postmoderna.
Paradise Island fu trasformato in un sito archeologico immaginario che svelava le origini del mito della città perduta di Atlantide. Un’esperienza tematica a tutto tondo si aggiungeva al divertimento e alle emozioni tipiche di un villaggio turistico, portando sui tavoli da gioco e sugli scivoli ad acqua quegli stessi eccessi narrativi che anni dopo le criptovalute avrebbero introdotto nel mondo della finanza. In entrambi i casi non si trattava di un semplice esempio d’ingegneria finanziaria o di infrastruttura turistica, ma di un modo completamente nuovo d’immaginare l’attività finanziaria e quella ricreativa.
Leggende a parte, Atlantis diventò in breve tempo la principale fonte privata di occupazione del paese e spinse la crescita delle Bahamas verso nuovi primati. Durante le prime fasi della costruzione del resort, tra il 1994 e il 1998, il pil pro capite aumentò del 56 per cento. Tra il 1994 e il 2002, il 64 per cento degli investimenti diretti provenienti dall’estero e il 40 per cento dei nuovi posti di lavoro erano direttamente collegati al resort.
La fantasia postmoderna di Atlantide fu il volano di una crescita economica reale. Ma questa ricchezza era fortemente esposta agli shock esterni. Gli attentati dell’11 settembre 2001 fermarono il turismo per un paio di stagioni. La guerra internazionale al terrorismo creò una stretta senza precedenti sul riciclaggio di denaro. Ancora una volta le Bahamas si affrettarono a mettersi in regola. L’economia ripartì, ma subì un’altra brusca frenata a causa della crisi finanziaria del 2008. Repubblica Dominicana, Antigua e Barbuda, Giamaica e St. Kitts and Nevis furono costrette a richiedere l’aiuto dell’Fmi. Le Bahamas erano troppo forti per farlo.
Dopo la crescita vertiginosa degli anni novanta e dei primi anni duemila, tuttavia, lo sviluppo si è fermato, Atlantis ha perso smalto, i ricavi dell’attività bancaria offshore sono diminuiti. Il pil pro capite bahamense è tornato ai livelli del 2007 solo nel 2015. In termini di potere d’acquisto la situazione era ancora meno rosea, con un calo del pil pro capite di più del 10 per cento tra il 2007 e il 2017. Nel frattempo la spesa pubblica in sussidi e salari aumentava. Di conseguenza il rapporto tra debito pubblico e pil, che negli anni novanta era inferiore al 30 per cento, nel 2014 ha superato il 73 per cento, sopra la media dei paesi caraibici.
Patrimoni russi
In cerca di alternative, nel 2014, dopo l’invasione russa della Crimea, le Bahamas sono diventate per un breve periodo l’approdo dei patrimoni russi in fuga dalle sanzioni occidentali e dai tentativi del presidente Vladimir Putin di rimpatriare le fortune degli oligarchi. Questi fondi, tuttavia, sparivano con la stessa velocità con cui erano arrivati. Poco prima del 2020, anche per effetto dell’inserimento nelle liste nere delle autorità straniere, i depositi esteri nelle banche offshore bahamensi diminuivano del 6 per cento all’anno. Dopo la crisi finanziaria del 2008 grandi speranze erano riposte nel progetto di Baha Mar a Cable Beach, un resort di quattrocento ettari finanziato dalla Export-Import Bank of China e da aziende edilizie di Hong Kong. La struttura non ha replicato neanche lontanamente il successo di Atlantis. Dopo una serie di ritardi e un investimento di quattro miliardi di euro, ha aperto solo nel 2017 e ha avuto scarsi risultati.
La crescita dei debiti e la stagnazione del pil hanno messo in allarme le agenzie di rating, che hanno progressivamente declassato il debito pubblico bahamense. Nel 2018, su suggerimento dell’Fmi, le Bahamas si sono impegnate a mantenere il debito pubblico al 50 per cento del pil. È stato un segnale allarmante dell’esigenza di stabilizzare l’economia, per di più accompagnato dalla decisione impopolare d’introdurre un’imposta sulle transazioni. È stato in quel momento che i bahamensi si sono affidati alle criptovalute. La finanza digitale era la magia che serviva per rilanciare il suo stagnante settore dei servizi? I partiti politici hanno salutato l’avvento di una nuova era. Nel 2019 la banca centrale delle Bahamas è stata una delle prime al mondo a lanciare una valuta digitale: il sand dollar. A novembre del 2020 il parlamento ha approvato il Digital assets and registered exchanges bill per disciplinare la registrazione e lo status giuridico dei beni digitali. Nel 2020 le Bahamas erano il paese più all’avanguardia nella regolamentazione delle criptovalute. È uno dei motivi che ha spinto la Ftx a spostarsi lì, ha ammesso Bankman-Fried. L’altro era che Nassau aveva adottato misure anticovid relativamente morbide, un’osservazione che ci ricollega al secondo, in ordine di tempo, dei due disastri che hanno colpito l’economia locale in rapida successione.
Il primo è stato l’uragano Dorian, che si è abbattuto sulle Bahamas nel settembre 2019, provocando danni enormi nelle Abaco e a Grand Bahama, stimati intorno al 25 per cento del pil nazionale. Qualche mese dopo la pandemia ha paralizzato il turismo mondiale. È difficile pensare a una combinazione più micidiale per l’economia dell’arcipelago. Nel 2020 l’aumento della spesa pubblica e un crollo del 16 per cento del pil hanno portato il rapporto tra debito pubblico e pil oltre il 100 per cento. Il governo del Plp, entrato in carica nel 2021, ha cercato di mantenere i nervi saldi. La rapida riapertura post-covid apprezzata da Bankman-Fried faceva parte di un tentativo di attirare i dollari del turismo, rilanciare il pil e rendere più gestibile il peso del debito pubblico. Ma nel 2022, con lo shock dell’aumento del prezzo del petrolio e dei prodotti alimentari, e l’impennata dei tassi d’interesse statunitensi, la spavalderia di Nassau si è sgonfiata. Gli esperti locali, ormai, parlano in tono rassegnato di un imminente intervento dell’Fmi.
È stata questa catastrofica serie di shock a rendere così irresistibilmente allettante la prospettiva di ospitare la Ftx, forte all’epoca di una valutazione superiore ai 25 miliardi di dollari. Non era la solita operazione offshore lontana da occhi indiscreti o l’ennesimo miliardario che comprava un’isola di nascosto. L’arrivo della Ftx nel settembre 2021, poco prima che il bitcoin raggiungesse il valore record di 66mila dollari, è stato accolto da una vera e propria festa nazionale. Nell’aprile 2022 il primo ministro Philip Davis è andato a stringere la mano a Bankman-Fried e ha dato inizio ai lavori per i futuri uffici della Ftx a Nassau. La nuova sede dell’azienda, proclamava Davis a giugno, doveva diventare “uno spazio in grado di rivaleggiare con il campus di Google”.
Ma non sono state solo le autorità locali a farsi ammaliare. Bankman-Fried è riuscito ad attirare alle Bahamas l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e l’ex premier britannico Tony Blair, oltre a una serie di personalità di Wall street. La Ftx ha messo in piedi uno spettacolo, una specie di parco tematico per ricchi, che però si è trasformato in un disastro di proporzioni imbarazzanti.
Per le Bahamas, alla fine dei conti, la Ftx è stata solo un evento marginale, l’ennesimo progetto, l’ultimo dei tanti investimenti stranieri falliti. Come hanno dichiarato le agenzie di rating, il fallimento dell’azienda non ha avuto alcun effetto sulla valutazione del debito pubblico del paese. Il fatto che sia stato investito tutto questo capitale politico nel progetto è di per sé stesso un trionfo della speranza sul buon senso. Quello che conta, per le Bahamas, è la continua crescita del turismo e del settore immobiliare. Ed entrambi dipendono da che tempo fa.
Quando c’è il sole e soffia il vento, si è tentati di liquidare anche disastri economici gravi come una questione di sfortuna. In fondo la pandemia è partita dalla lontana Cina, e l’isteria che si è scatenata a livello mondiale si è dimostrata esagerata. Dorian è stato una catastrofe, ma nei Caraibi gli uragani sono la norma. Ci sono stati danni e distruzione, ma i miliardi di dollari di risarcimento pagati dalle assicurazioni hanno tenuto in piedi la bilancia dei pagamenti. Di fronte alle calamità naturali il capitalismo continua a funzionare. Anzi, gli ingranaggi girano ancora più velocemente.
Questa narrazione è confortante, ma vale fino a un certo punto. Dorian è un fenomeno nuovo e minaccioso: una tempesta che si è abbattuta sull’arcipelago con venti di trecento chilometri all’ora, generando decine di tornado e scatenando forze ancora più violente. È stato uno dei peggiori uragani mai registrati nell’emisfero occidentale, che ha stazionato nell’area per un periodo insolitamente lungo, seminando distruzione per quasi 48 ore. Il bilancio delle vittime è stato contenuto solo perché l’uragano ha colpito isole poco densamente popolate, e le persone sono state avvertite con un sufficiente preavviso. Molte vittime haitiane senza documenti non sono state conteggiate.
Fenomeni di questo tipo diventeranno più frequenti. Siamo nell’era dell’antropocene, e per i Caraibi è una minaccia mortale. Se Dorian avesse colpito New Providence, in cui risiedono due terzi della popolazione, l’esistenza delle Bahamas sarebbe stata messa a rischio. Ma l’avvertimento più grave è l’aumento del livello del mare: l’arcipelago, formato da affioramenti vulcanici e barriere coralline, ora è uno dei luoghi più vulnerabili al mondo.
Agli incontri annuali delle Nazioni Unite sul clima i Caraibi sono una voce importante. Nel 1994 Barbados ospitò la prima Conferenza globale sullo sviluppo sostenibile dei piccoli stati insulari, che definì una nuova categoria di paesi a rischio. Oggi le Bahamas e Barbados rappresentano due facce opposte della risposta dei Caraibi alla crisi climatica: Barbados, che ha un debito pubblico più alto, ha promosso la Bridgetown initiative, per creare un’architettura finanziaria capace di mettere a disposizione centinaia di miliardi di dollari di fondi contro le crisi e investimenti per l’adattamento climatico nei paesi in via di sviluppo più vulnerabili. Le Bahamas, invece, vedono nel cambiamento climatico un’opportunità per l’ennesima operazione d’ingegneria finanziaria: metteranno sul mercato i cosiddetti crediti di carbonio blu, basati sulla capacità di assorbimento degli ecosistemi costieri di mangrovie ed erba marina che circondano l’arcipelago. Gli inquinatori globali potranno comprare questi crediti, compensando le loro emissioni e assicurando alle Bahamas una fonte di ricavi.
Ma se c’è una cosa che la storia delle Bahamas insegna è che questi piani sono spesso una chimera. Non si risolve il problema del clima spostando da un punto all’altro il diritto a inquinare, così come non si sfama una nazione con la finanza offshore. Non che la finanza sia irrilevante: ai Caraibi serve un’assicurazione, sia privata sia pubblica. La decisione presa all’ultimo vertice sul clima di creare un fondo globale per le perdite e i danni a cui possano attingere i paesi vittime della crisi climatica è un passo nella direzione giusta. Tutto questo, però, deve tradursi sul campo nella preparazione e nell’adattamento delle persone e dei territori. Una delle eredità della disuguaglianza economica e della discriminazione razziale è che il 90 per cento dei bahamensi non ha mai preso lezioni di nuoto. Questo ha avuto conseguenze tragiche quando Dorian ha lasciato migliaia di persone nell’acqua fino al collo.
Man mano che le magnifiche acque e il clima caldo e ventoso diventano più instabili e pericolosi, l’unica cosa che può sostenere i paesi emersi dall’impero britannico nella seconda metà del novecento è un piano di preparazione e resistenza ai disastri, che richiederà nuovi investimenti pubblici. Per questo il delicato equilibrio tra finanza offshore e turismo di lusso che ha caratterizzato le Bahamas e i suoi vicini più ricchi nel primo mezzo secolo dalla loro indipendenza non basterà. ◆ fas
Adam Tooze è uno storico britannico. Insegna alla Columbia university, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’anno del rinoceronte grigio (Feltrinelli 2021).
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Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati