Le piante soffocano lentamente fino a morire, appassiscono e si seccano. Le foglie cadono e la corteccia diventa grigia, creando una distesa monocromatica. Da quando nel 2013 gli scienziati hanno individuato per la prima volta in Puglia la Xylella fastidiosa, il batterio ha ucciso un terzo dei 60 milioni di olivi della regione, che un tempo producevano quasi metà dell’olio d’oliva italiano. Molti erano alberi secolari. Le aziende agricole hanno interrotto la produzione, i frantoi sono falliti e i turisti hanno evitato la zona. In assenza di una cura, il batterio ha già causato oltre un miliardo di euro di danni.
Non abbiamo imparato nulla
“La maggior parte del territorio è stata completamente distrutta”, spiega Donato Boscia, esperto di Xylella e dirigente responsabile della sede di Bari dell’Istituto per la protezione sostenibile delle piante (Ipsp).
A dieci anni di distanza la minaccia rappresentata della Xylella e da altre malattie per le piante europee è sempre più forte: nel febbraio scorso gli scienziati in Puglia hanno rilevato la presenza di una sottospecie di Xylella che in passato ha colpito i vigneti statunitensi e in Italia non era ancora stata rilevata.
Per molti agricoltori, scienziati ed enti regolatori, la malattia è il simbolo di un problema più ampio: la difficoltà dell’Unione europea a limitare l’ingresso di nuove malattie delle piante. Secondo i ricercatori, il problema peggiorerà con il riscaldamento globale.
I dati indicano che tra il 2015 e il 2020 i focolai di malattie delle piante di nuova introduzione nell’Unione erano in media 70 all’anno, anche se nel 2016 sono state scritte nuove regole per fermarli.
Vari stati europei hanno adottato anche altre misure per prevenire e contrastare queste epidemie, ma scienziati, epidemiologi vegetali e agronomi affermano che non basta.
“Non riesco a capire come mai non abbiamo imparato nulla dopo la Xylella”, commenta Pierfederico La Notte, ricercatore presso l’Ipsp.
In una torrida mattina di giugno del 2023 Paolo Solmi, ispettore fitosanitario del porto di Ravenna, ha chiesto ai suoi collaboratori di aprire il primo dei 28 container pieni di patate egiziane da controllare quel giorno. Dopo aver riempito sacchi di cento patate, li hanno inviati in laboratorio per verificare se rispettavano gli standard comunitari.
“Una volta superati i controlli, le merci possono circolare all’interno dell’Unione europea”, spiega Solmi.
L’Unione ha un sistema d’importazione aperto: tutto quello che non è certificato come dannoso può entrare. Alcuni paesi, tra cui la Nuova Zelanda e il Cile hanno scelto un sistema chiuso: qualsiasi prodotto è considerato pericoloso fino a prova contraria.
I dati raccolti dimostrano che il batterio della Xylella è arrivato dall’America Latina, probabilmente in alcune piante di caffè ornamentali sbarcate nei Paesi Bassi. Tra il 2005 e il 2014 sono entrate in Europa trenta milioni di piante, germogli e bulbi, soprattutto attraverso i porti olandesi. Secondo Alberto Santini, patologo forestale del Consiglio nazionale delle ricerche, il sistema aperto ha consentito l’ingresso in Europa di un numero allarmante di parassiti e malattie provenienti da paesi terzi.
“Se conosci il tuo nemico puoi provare a impedirgli di entrare nel tuo paese”, spiega Santini, precisando che molti patogeni sono innocui nelle aree d’origine perché gli ecosistemi si sono evoluti insieme a loro. La Xylella non ha un impatto nocivo sulle piante di caffè in Costa Rica, ma è diventata una minaccia inarrestabile quando è entrata in contatto con gli olivi, indifesi, dell’Italia meridionale.
Nel 2016 l’Unione europea ha introdotto nuove regole per gestire meglio cosa entra e per reagire prontamente alle epidemie. Ma i porti d’ingresso sono talmente tanti che gli scienziati non riescono a tenere il passo dell’enorme flusso di importazioni. La Trioza erytreae è un parassita che succhia la linfa delle piante e ha messo in pericolo gli agrumi portoghesi, mentre un batterio che colpisce le carote e il sedano preoccupa gli allevatori di tutta Europa. Il fungo Hymenoscyphus fraxineus ha fatto morire i frassini in Polonia.
Molti ricercatori temono che la diffusione di questi patogeni possa essere favorita dalla crisi climatica, che sta rendendo l’Europa più calda e più ospitale per organismi nocivi provenienti da altre aree del pianeta. “Il sistema attuale permette di introdurre continuamente nuovi organismi”, spiega La Notte. “Nel contesto del cambiamento climatico sarà sempre più difficile da gestire”.
Bancali di legno
Secondo Wopke van der Werf e Hongyu Sun, ricercatori dell’università di Wageningen, nei Paesi Bassi, tra il 1975 e il 2020 nel territorio europeo sono stati registrati 1.720 focolai di malattie delle piante esotiche, di cui metà in Italia, Spagna e Francia. Il 2018 è stato l’anno peggiore, con 115 casi accertati.
I dati vengono dall’archivio dell’Organizzazione europea e mediterranea di protezione delle piante (Eppo), che registra il luogo in cui le malattie delle piante esotiche all’interno del continente o in una nuova regione sono rilevate per la prima volta. È probabile che i numeri siano sottostimati, perché l’Eppo si affida all’analisi della letteratura scientifica e ai rapporti ufficiali delle autorità nazionali e quindi dipende dalla volontà degli stati d’investigare sulla presenza di organismi potenzialmente nocivi.
Secondo La Notte alcune colture sono estremamente regolate, come la vite, mentre per altre c’è molta più permissività, soprattutto per le piante ornamentali. Questo aumenta il rischio di importare organismi dannosi.
Diversi ricercatori sostengono che i bancali di legno, le piante vendute su internet e i viaggiatori che trasportano illegalmente piante o frutti siano tra i responsabili dell’arrivo delle malattie.
In alcuni casi, come nei Paesi Bassi, il commercio libero delle piante è una componente fondamentale della storia e dell’economia nazionale. Per questo vari governi si sono opposti all’introduzione di regole più restrittive. Christian Linden, fondatore e amministratore delegato della Ibh export, che importa fiori e piante soprattutto dalla Turchia e dall’Africa orientale, ridistribuendoli in tutta Europa, ammette di non sapere quanti patogeni o insetti entrino in Europa attraverso il mercato delle piante, ma non si preoccupa perché considera le autorità fitosanitarie “estremamente diligenti”.
Secondo lui le nuove regole introdotte nel 2016 hanno migliorato la protezione per l’Unione europea e sottolinea l’utilità del nuovo passaporto delle piante, che non esisteva quando la Xylella è arrivata in Italia.
Oggi se un compratore trova una malattia o un insetto su una pianta importata, l’intero carico viene rintracciato e distrutto. “Quando è necessario per la tutela dell’ambiente non possiamo evitarlo”, sottolinea Linden.
Difficile fare i controlli
I protocolli internazionali prevedono che solo il 2 per cento delle piante importate sia ispezionato, spiega l’Autorità olandese per la sicurezza alimentare e dei prodotti al consumo (Nvwa), che reputa efficace il sistema di controllo nazionale: una volta che le piante superano il confine e finiscono in un vivaio, l’ispettore fitosanitario le ricontrolla dopo due mesi per verificare la presenza di malattie latenti.
Nel porto di Ravenna l’ispettore fitosanitario Solmi ammette la difficoltà di eseguire i controlli. “L’Europa è nata attorno al libero movimento di beni, capitali e persone. La nostra missione è fare il possibile all’interno del sistema fitosanitario aperto, perché al momento non esiste un’alternativa”.
Per l’Unione europea il costo economico di una riduzione del commercio sarebbe enorme, ma lo stesso vale per i danni causati da parassiti e malattie provenienti dai paesi terzi. Come si quantifica il prezzo della perdita di una foresta di frassini?
“Il problema principale sul piano economico è la carenza di dati”, sottolinea Françoise Petter, ex vicedirettrice dell’Eppo. I costi e i benefici di un sistema chiuso non sono stati calcolati e al momento non è chiaro se le perdite generate da un rallentamento del sistema commerciale possano essere bilanciate dagli effetti positivi della protezione dell’agricoltura e della biodiversità.
“Non abbiamo mai provato a fare un confronto adeguato con un sistema chiuso”, conferma Petter. “È un po’ deprimente, no?”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1564 di Internazionale, a pagina 39. Compra questo numero | Abbonati