Staccando una foto ingiallita dalla parete del salotto con il tatami per terra, Hideo Shimoju punta il dito sul bordo destro dell’immagine per indicare dov’erano quasi un secolo fa la segheria di famiglia e le case degli operai: sulle rive del fiume Naka. Era prima che la grande alluvione del 1938 spazzasse via la fabbrica del nonno, facendoli quasi fallire. “Da quel momento la regione ha fatto i conti con vari straripamenti del Naka, l’ultima nel 2019”, spiega Shimoju mentre ripercorre la storia della sua famiglia con un misto dolceamaro di nostalgia e orgoglio. “Ecco perché molti di noi alla fine hanno accettato di trasferirsi in una zona più in alto”.
Il quartiere dove vive Shimoju, Miyabara, nella città di Nasukarasuyama, è tra quelli che stanno discutendo con le amministrazioni locali e con il governo di Tokyo se spostarsi in aree più al riparo dalle calamità naturali. Se gli abitanti decideranno per il sì, sarà il primo trasferimento collettivo per la prevenzione dei disastri, com’è stato chiamato il programma.
Anche se le infrastrutture e i sistemi di allerta ad alta tecnologia hanno rafforzato la capacità di reazione dei comuni che si trovano vicino ai grandi fiumi e alle coste, il cambiamento climatico potrebbe mettere comunque i centri abitati a dura prova. Un futuro di acquazzoni, inondazioni, mareggiate e tifoni più intensi minaccia molte comunità, in particolare quelle rurali come Miyabara. E dato che il Giappone è sempre in balia dei devastanti capricci sismici della natura, il governo sta cercando di rendere più resistenti le città e i villaggi delle zone ad alto rischio o di spostarli in luoghi più sicuri e con un accesso migliore ai servizi d’emergenza. Quando, per esempio, il 1 gennaio di quest’anno un terremoto di magnitudo 7,6 ha colpito la penisola di Noto, nell’ovest del paese, e ha provocato uno tsunami, decine di comunità sono rimaste temporaneamente isolate perché nelle strade si erano aperte delle crepe o c’erano state delle frane.
Tuttavia, realizzare i trasferimenti non è un’impresa facile. Molti abitanti delle zone rurali vivono in quelle terre da generazioni, spesso da secoli. Convincerli a lasciarle è un processo complicato e delicato. Alcuni piani sono stati proposti, poi però sono stati abbandonati perché non avevano il favore della popolazione. “La maggior parte di chi abita nel mio quartiere e rientra nel programma per il trasferimento collettivo ha dato il consenso”, dice Shimoju. “Ma molti sono anziani, e la paura è che non siano in grado di prendersi cura delle loro fattorie”.
Seduto accanto a una stufa elettrica in una ventosa mattina di febbraio, Shimoju mi serve del tè verde insieme a una confezione di biscotti del posto a forma di ayu, i pesci di acqua dolce che abbondano nel fiume Naka.
Shimoju ha sessantotto anni, è di corporatura esile, stempiato e con i capelli brizzolati. Suo padre chiuse la segheria nel 1989, poco prima di morire di cancro, e lui ha lavorato in banca fino alla pensione. Ora guida l’associazione degli abitanti di Miyabara, una piccola comunità di circa cento famiglie raccolte vicino a un’ansa del Naka, un corso d’acqua lungo 150 chilometri che attraversa le prefetture di Tochigi e Ibaraki per poi sfociare nell’oceano Pacifico.
Un fiume impetuoso
Il Naka è sempre stato una risorsa per l’irrigazione dei campi e per la segheria degli Shimoju, che lo usavano per trasportare il legno. Ma circa ogni dieci anni, durante le piogge più forti, gli argini cedono. L’evento decisivo, tuttavia, è stato il potente tifone Hagibis, che ha colpito il Giappone continentale nell’ottobre 2019 provocando più di cento morti e facendo crollare gli argini di più di settanta fiumi. Anche il livello del Naka è salito. Ha sommerso 41 abitazioni di Miyabara e costretto molti residenti a lasciare temporaneamente la zona. Nel vicino villaggio di Shimozakai, altre 72 case sono state allagate.
“Mia moglie era terrorizzata perché l’acqua aveva raggiunto la strada sotto casa”, racconta Shimoju. “Noi eravamo al sicuro, ma le abitazioni di molti vicini erano allagate”. Stendendo una cartina, Shimoju mi spiega che la dura roccia dell’area ha scavato nel fiume un’ansa a forma di s, che accumula pressione durante le piogge intense e aumenta il rischio di alluvioni. “Come può vedere, sulla riva opposta ci sono le montagne, quindi l’acqua piovana si riversa direttamente nel fiume”.
Subito dopo il tifone, le autorità di Nasukarasuyama hanno chiesto agli abitanti di Miyabara e Shimozakai, le zone più colpite all’interno del comune, di valutare se entrare nel bōsai shudan iten, il trasferimento collettivo per la prevenzione dei disastri. Il programma, finanziato con fondi pubblici, permette alle amministrazioni locali di comprare terreni e abitazioni private nelle aree più esposte alle calamità naturali e nel frattempo costruirne di nuove in cui ricollocare le persone. Questa strategia è stata usata in passato, ma solo in risposta a un disastro naturale già avvenuto. Per esempio dopo il terremoto dell’11 marzo 2011, che spazzò via le comunità costiere nel nordest del Giappone. Invece ora il governo sta promuovendo una misura preventiva che mira a spostare i residenti delle aree a rischio prima che succeda una catastrofe.
“Il Naka esonda spesso e in alcuni tratti gli argini non basteranno a contenerlo”, dice Yasuhiro Suzuki, un funzionario dell’ufficio per l’urbanistica di Nasukarasuyama, che si sta occupando del piano di trasferimento. “Abbiamo organizzato assemblee in municipio per spiegare l’operazione alle persone che potrebbero essere coinvolte, chiedendogli dove vorrebbero spostarsi”. Circa il 90 per cento delle 39 famiglie inserite nel programma ha accettato il ricollocamento, e come nuovi siti sono stati individuati alcuni lotti vicini.
“La nostra priorità è preservare i legami comunitari, quindi abbiamo voluto restare a Miyabara”, afferma Suzuki. Il 42 per cento degli abitanti ha almeno 65 anni, e questo è un altro motivo per cui non hanno proposto alternative troppo lontane. I piani di trasferimento collettivo di Miyabara e Shimozakai, insieme ad altri in varie zone del paese, saranno i primi nel loro genere e potrebbero tracciare una strada da seguire.
Pianificare interventi
Un rapporto scritto in vista di un incontro tra l’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, la Brookings institution e l’università statunitense di Georgetown, e intitolato “Trasferimenti pianificati, disastri e cambiamento climatico. Come consolidare le buone pratiche e prepararsi per il futuro”, suggerisce che se il riscaldamento globale renderà alcune zone inabitabili e le persone dovranno lasciarle: “I governi hanno la responsabilità di cominciare a pensare a questa eventualità e a pianificare interventi”.
Una delle categorie identificate dal rapporto sono gli abitanti di “aree esposte a fenomeni naturali improvvisi sempre più violenti e intensi a causa del cambiamento climatico (per esempio le regioni soggette a inondazioni e quelle costiere)”.
Rientra in questo gruppo chi vive lungo il fiume Gōno, che attraversa le prefetture di Hiroshima e Shimane, nel Giappone occidentale. Come il Naka, anche questo corso d’acqua è noto per il suo temperamento impetuoso. Gli abitanti di Minato, nella prefettura di Shimane, hanno dovuto affrontare molte esondazioni, l’ultima nel luglio 2020. Con le piogge torrenziali, l’innalzamento del Gōno ha spinto un affluente a rompere gli argini e cinque case sono state sommerse.
“In passato, alluvioni simili capitavano una volta ogni cinquanta o cento anni”, dice Tomoh Mikami, dell’ufficio urbanistica del comune di cui fa parte Minato. “Ma ora sembrano molto più frequenti. Dopo le inondazioni del 2020, gli abitanti hanno deciso che era troppo”.
Quello stesso anno il governo ha abbassato i requisiti per i trasferimenti preventivi, da almeno dieci unità abitative ad almeno cinque, consentendo alle famiglie di Minato danneggiate dall’alluvione di rientrare nel programma. Un terreno ai piedi di una montagna è stato livellato per uso residenziale e Mikami spiega che la costruzione delle abitazioni comincerà ad aprile. Tokyo coprirà più del 90 per cento delle spese, mentre il resto ricadrà sul comune: “Speriamo che le persone possano sistemarsi nelle nuove case entro la fine dell’anno”.
Il Giappone è uno dei paesi più vulnerabili ai disastri naturali. È abituato agli eventi meteorologici estremi: le piogge torrenziali, più frequenti da decenni; i cicloni tropicali, che si sono intensificati. Senza contare che poco più del 18 per cento dei terremoti nel mondo avviene qui, perché siamo sul punto in cui s’incontrano quattro placche tettoniche.
La legge sul trasferimento collettivo non è nuova, risale al 1972. I comuni delle prefetture di Akita e Miyazaki, rispettivamente nel nordest e nell’estremo sudovest del paese, furono tra i primi a beneficiarne, in seguito ai nubifragi che avevano costretto gli abitanti a lasciare le case. Delle quasi 39mila famiglie finora iscritte al programma, circa il 95 per cento è stato colpito dal grande terremoto del 2011, quando una scossa di magnitudo 9,0 generò un maremoto che devastò le città costiere dell’est e provocò la morte di 18mila persone.
“Visto che questi fenomeni stanno diventando più intensi, incoraggiamo l’idea che sia più sicuro trasferirsi prima che ci sia una catastrofe”, afferma Yusuke Maekawa, funzionario per la sicurezza urbana al ministero del territorio e delle infrastrutture. “Noi lo chiamiamo jizen iten (trasferimento anticipato)”. Per questo il limite di fondi stanziabili da Tokyo, che era stato fissato a 16,55 milioni di yen (circa 102mila euro) per unità abitativa, recentemente è stato portato a 73 milioni (450mila euro). Ma in molti casi è difficile, se non impossibile, prevedere quando e dove ci sarà un evento naturale estremo.
Tuttavia è difficile individuare i territori in pericolo e convincere a trasferirsi persone molto attaccate alla loro terra
“Il sistema attuale può essere usato per più scopi, al di là delle minacce costituite dai fiumi. Per esempio, può servire a salvarsi da frane e tsunami”, dice Maekawa. Ma finora sono state considerate solo le comunità a rischio d’inondazioni. “Chi vive in aree più esposte a terremoti e tsunami, come la penisola di Noto, può perdere tutto quello che ha”, aggiunge il funzionario. “Tuttavia è difficile individuare i territori in pericolo e convincere persone molto attaccate alla loro terra a trasferirsi”.
L’importanza della comunità
Nella prefettura di Ishikawa più di tremila abitanti in una ventina di frazioni sono rimasti temporaneamente isolati dopo il terremoto del 1 gennaio, con epicentro al largo delle coste della penisola di Noto. Le violente scosse hanno distrutto migliaia di case, squarciato strade e provocato frane che hanno interrotto vie d’accesso vitali, evidenziando la vulnerabilità di queste vecchie comunità.
Nella città costiera di Uchinada il sisma ha causato crepe e fatto sprofondare edifici. All’inizio di febbraio, durante una conferenza stampa, il sindaco Katsunori Kawaguchi ha affermato che, considerando i gravi danni, trasferire i residenti poteva essere una soluzione. “Credo che, in casi estremi, bisognerebbe valutare l’ipotesi di uno spostamento collettivo”, ha detto. Come dopo il terremoto del 2011, tuttavia, si pensa a queste alternative solo dopo che i territori sono diventati inabitabili.
Satoru Masuda, che insegna all’università del Tōhoku (una delle regioni colpite del sisma) ed è un esperto di pianificazione regionale, afferma che i trasferimenti collettivi sono stati concepiti per spostare in luoghi più sicuri al massimo qualche decina di famiglie delle zone a rischio. “Non abbiamo mai pensato a un ricollocamento di portata maggiore”, ammette. Le cose sono cambiate dopo il terremoto del 2011. In seguito a quella catastrofe, 37mila famiglie hanno scelto di aderire al piano, spesso sistemandosi più all’interno, su terreni elevati. Ma l’esodo organizzato in fretta e furia ha creato scompiglio in molte comunità, sottolinea Masuda, e alcuni abitanti oggi si sentono isolati nelle loro nuove case.
Un elemento che determina il successo di questi piani è la dedizione con cui i funzionari locali spiegano i loro obiettivi ai cittadini coinvolti.
Un altro fattore importante è il flusso regolare d’informazioni fornite da esperti esterni, tra cui urbanisti e figure impegnate nel lavoro di comunità. “Infine, una condizione necessaria è essere in contatto con i leader locali, per fare in modo che il progetto rifletta le necessità degli abitanti”, afferma Masuda.
Con le campagne che si stanno spopolando in tutto l’arcipelago, secondo Masuda alcune piccole frazioni e i villaggi in zone poco accessibili dovranno considerare la possibilità di trasferirsi o di unire le loro comunità per limitare i pericoli legati agli eventi estremi. “Il problema è che in Giappone i disastri naturali possono succedere ovunque”, dice.
A Miyabara, il quartiere di Nasukarasuyama che sta decidendo se fare o no il trasferimento preventivo, le nuove abitazioni potrebbero essere costruite in un appezzamento a picco sul fiume Naka, a circa cento metri dalla casa di Shimoju.
È il risultato di un compromesso raggiunto dopo lunghi negoziati. Inizialmente erano stati proposti terreni più sicuri, lontano da Miyabara, ma le famiglie si erano opposte e avevano chiesto che le case fossero costruite lì vicino, per mantenere rapporti ormai consolidati. Per ridurre gli effetti di un’inondazione, il progetto attuale prevede di rialzare il terreno prima di costruire gli edifici.
Guardando il Naka, Shimoju spiega che a Miyabara sono state trovate rovine che risalgono a più di diecimila anni fa, al tardo paleolitico o all’inizio del periodo Jōmon, e questo significa che la civiltà umana qui ha una lunga storia.
“Certo, il fiume ha portato molta distruzione. Ma è stato per noi anche una grande fonte di sostentamento”, aggiunge, ricordando che in estate lui e i suoi amici si tuffavano nelle sue acque limpide. “Sono molto legato a questo posto e alla sua gente”. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1555 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati