◆ Passando da Bologna ho visto una scritta sul muro: d’io è l’altro. Mi sono fermata a fotografarla. Mi è venuta in mente una notte di molti anni fa, quando sono stata assaltata da un gruppo di bambini armati, una baby gang , come li chiamano. Facevo l’università e attaccavo manifesti poetici sui muri della città. Ricordo la paura e lo stordimento quando mi sono sentita afferrare alle spalle: erano otto, avranno avuto tra i 12 e i 17 anni. Mi è presa subito una grande tristezza: ora mi ammazzano, ho pensato, senza un perché. Poi ho detto una frase che non ho mai più detto in vita mia: voi non sapete chi sono io. Perché l’ho detta? Chi sono, chi ero? Una studentessa che andava in giro di notte da sola, uguale a tutti gli studenti del mondo. Ma nell’annebbiamento della paura è stata l’unica frase che sono riuscita a dire. Potevo parlare solo in nome di me stessa. Non trovavo niente che ci univa, nessun valore in nome del quale chiedere all’altro di non ammazzarmi: non potevo dire “in nome di dio”, li avrei fatti arrabbiare. Non potevo dire “in nome della giustizia”, si sarebbero messi a ridere. Mi sono sentita esule e sola, con niente a cui aggrapparmi se non il mio essere lì. Chi sei? Mi hanno chiesto. Nessuno. Comunque non mi hanno ammazzato. Hanno preso il mio Nokia senza valore e sono spariti nella notte, esuli e soli proprio come me.
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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati