Febbraio a Manali, nell’Himachal Pradesh, Himalaya occidentale. Mentre la strada tortuosa svolta lungo il fiume Beas, il parabrezza appena lavato del nostro taxi si copre in poco tempo di una spessa patina di polvere. I cani inseguono la macchina, le zampe simili alle ali di un uccello che fatica a muoversi nel mezzo di una tempesta di pulviscolo. Scruto il paesaggio montano cercando le luci dell’alba e, inconsciamente, qualche remota sembianza di vita urbana. Tiriamo su i finestrini con la polvere già tra i denti. Cerco di proteggere i vestiti e il libro che tengo tra le mani.
A ottobre del 2020 il primo ministro Narendra Modi ha inaugurato una nuova galleria, parte di una recente serie di grandi progetti infrastrutturali nello stato. Mentre fervono i lavori di costruzione di un’autostrada a sei corsie che collegherà questa città sperduta alle regioni più alte dell’Himalaya, guardiamo gli edifici lungo la strada, i negozi e i centri abitati immersi in una polvere che sembra accumularsi da mesi e c’interroghiamo sul costo reale di questo sviluppo. Nel nord dell’India la polvere è dappertutto, come una scia lasciata dai lavori di costruzione. Marca il territorio e non ci lascia mai soli. Sull’autostrada, nei piatti che mangiamo, nei bagni pubblici: la polvere è onnipresente.
All’inizio del viaggio, una notte verso la fine di febbraio, saliamo sull’autobus della linea statale che porta da Delhi a Manali. Durante la traversata di 12 ore veniamo costantemente assaltati da un miasma di polvere mista a gas di scarico. Guadando una spessa foschia, il conducente cerca di farsi spazio nel traffico. Senza potermi fermare per cenare o anche solo per andare in bagno, mi sento più limitata che mai dalla polvere.
Provo a stringere gli occhi per vedere tra la nebbia ma continuo a incontrare uno spesso schermo traslucido. Nell’impossibilità di vedere al di là di un paio di metri, queste ore sembrano fantasmagoriche. Non ho mai visto niente di simile in vita mia. La polvere si accumula sui veicoli di passaggio, si ammassa negli angoli dei dhaba (i ristoranti lungo la strada) e si posa sui tetti dei camion parcheggiati, come se fosse anch’essa una merce che aspetta di essere venduta e distribuita.
Non abbiamo letto niente di questa foschia sui giornali, e ci sembra di essere rimasti intrappolati in una nuova, imprevista dimensione. Già oppressi dalle mascherine, ci sentiamo separati, quasi dimenticati, dal resto del mondo. Stretta nella morsa della claustrofobia, incapace di dormire o anche solo di scendere dall’autobus per sgranchirmi la schiena, guardo la polvere impossessarsi della mia vita. Non mi sono mai sentita particolarmente toccata dal “normale” (apparentemente) inquinamento da polvere del nord dell’India. Più ci penso, però, più mi rendo conto che forse la polvere c’è sempre stata; ho solo scelto di non pensarci.
Alla fine degli anni novanta, quando con la mia famiglia facevamo delle gite per il Madhya Pradesh, l’Uttar Pradesh, Delhi e il Punjab, la polvere era una compagna costante. Nell’Uttar Pradesh le strade non erano asfaltate; densi pennacchi di polvere si alzavano dalle buche ogni volta che passava una macchina. Con i finestrini chiusi, vedevamo la polvere occupare ogni superficie libera, compresi i nostri capelli, volti e denti. Non mi ricordo nemmeno se ci facevamo caso, a parte la sporcizia che ci lasciava addosso. Oggi ricordo quei viaggi con una certa tensione.
In India e in Birmania, scrive Aldous Huxley, “non si respira aria, ma polvere e disperazione. Il presente è insoddisfacente, il futuro è dubbio e minaccioso”. Sono nata a circa 400 chilometri dalla capitale dell’India, a Kanpur, dove la polvere era parte della vita quotidiana. La sensazione di Huxley suonava familiare allora, ai tempi della scuola, così come oggi. Quando da piccoli giocavamo davanti alla casa di mio padre e ci rotolavamo nella sporcizia, correndo e imbrattandoci con gli elementi della terra, ci sentivamo completamente liberi. Dopo una sera di giochi, quando io e mio fratello tornavamo a casa con le mani, i gomiti, le facce e i vestiti coperti di polvere, un aroma di terra ci avvolgeva dalla testa ai piedi.
La polvere allora significava libertà. Ma quando mia madre m’invitava a studiare sodo e ad andarmene da Kanpur, mi ripeteva sempre che dovevo scappare dalla polvere. Ora questa polvere ci tiene legati.
Nel 2021, nel pieno di una grave pandemia, il nord dell’India sta attraversando un boom edilizio. Vivendo e lavorando a Delhi si ha l’impressione che si stia accumulando ancora più polvere. Ogni volta che tossisco sento salire un brivido, la paura di una malattia o di una vecchia patologia che sta per impossessarsi della mia vita. Il cielo è quasi sempre giallastro, la sporcizia tra le dita dei piedi è costante. Quando accarezzo i gatti randagi nel mio quartiere, una nuvola di polvere si alza dal loro pelo incolto. Guardo dalla finestra della mia stanza e un velo polveroso oscura la vista. La maggior parte delle volte, la coltre è talmente densa e diffusa che potrei scriverci dentro con un dito.
È una variante della stessa polvere oppressiva che forma lo scheletro di cemento di un paese in continua espansione. Attraverso la polvere si comprende il materiale di cui è fatta l’India. La polvere è il filtro attraverso il quale si vedono le città e, per estensione, tutto il paese. In India la polvere è un metodo in sé, il punto di osservazione dal quale provo a dare un senso alla natura imminente e promettente dello sviluppo edilizio. È un modo per fare i conti con questo flusso costante di costruzione, distruzione e ricostruzione. Da questo punto di vista, la polvere è più di un semplice componente della città: è una metafora della città stessa.
All’accumulo di polvere contribuisce anche la posizione geografica di Delhi, lontana da qualsiasi sbocco sul mare. La capitale sorge a nordest del deserto del Thar (nel Rajasthan), a nordovest delle pianure centrali e a sudovest dell’Himalaya. La geografia crea un effetto conca, che intrappola i venti di passaggio.
Per un cittadino urbano della classe media che viene dalla capitale, la polvere di Manali evoca un senso di sventura. Per la gente del posto, però, non è sempre così. Il nostro autista, Sanju, parla dei vantaggi dell’edilizia, sottolineando orgoglioso che lo sviluppo ha portato a un aumento dei prezzi delle case nella zona, a migliori collegamenti e a un boom delle attività imprenditoriali. Considerando i vantaggi economici, per molte persone gli effetti dell’edilizia sulla salute sono un problema secondario.
A causa della polvere, le mie interazioni con l’esterno erano limitate già prima della pandemia. Ora uscire è diventato ancora più angoscioso
L’attuale governo indiano guidato dal primo ministro Modi ritiene che lo stato, impoverito dalla pandemia, debba usare le risorse che gli restano per costruire infrastrutture. Anziché puntare su un programma specifico per l’occupazione nelle aree urbane, quindi, il governo ha deciso d’investire nelle infrastrutture per creare posti di lavoro.
Negli ultimi anni, la velocità di costruzione delle strade è diventata un parametro di riferimento per la capacità di rinnovamento delle infrastrutture indiane. Con Modi, il governo ha messo in piedi un nuovo piano integrato per le infrastrutture che prevede la realizzazione di strade, ferrovie, vie navigabili e aeroporti. All’interno di questo programma il governo ha rilanciato il settore delle autostrade, in sofferenza a causa dell’usura e della mancanza d’investimenti privati. Nessuno, però, parla del prezzo altissimo che i residenti del nord dell’India devono pagare per tutto questo.
In alcune parti del paese la polvere si è trasformata in un modo di comunicare lo sviluppo edilizio. Anche negli angoli più sperduti si accumulano montagne di polvere che segnalano la presenza di un cantiere nelle vicinanze. Scherzando, dico ai miei amici che la polvere dovrebbe diventare una valuta, così forse ci sarebbero dei controlli.
Il 3o marzo Delhi viene avvolta da violente raffiche di vento che portano tonnellate di polvere dal vicino stato del Rajasthan, tingendo di un giallo intenso il cielo azzurro di marzo. Alle 11 del mattino la capitale è coperta da un manto di polvere bruna, simile alla foschia marrone-arancio che si vede ogni anno durante il Diwali, la festa delle luci.
Mentre lavoro e preparo il pranzo, mi dimentico di chiudere le finestre. Quando torno nella mia stanza, il letto, la poltrona e la bottiglia dell’acqua sono coperti da uno spesso strato di polvere. Finisco subito di mangiare e comincio a pulire. Dopo aver strofinato ogni angolo del mio computer portatile, spazzato il letto, sprimacciato i cuscini e spolverato la scrivania sono coperta di polvere; ne sento perfino il sapore. Sembra quasi un’ambasciatrice che annuncia un’imminente sventura. Mando un messaggio scherzoso a un’amica: “Penso che a Dehli viviamo nel futuro”. Il giorno dopo c’è il sole, ma la polvere è ancora lì.
Con l’arroganza tipica di chi viene dalla capitale, mi affaccio dal balcone e osservo la vasta nube rugginosa che incombe sulla città, convinta che i miei polmoni, già provati e danneggiati dall’aria cattiva che ho respirato durante l’infanzia, abbiano un livello di sopportazione più alto. Nel giro di pochi secondi gli occhi cominciano a prudermi, sento il petto esplodere e mi si prosciuga la gola. Ho un attacco di tosse secca, quasi tubercolotica. Uscendo dal mio appartamento a Delhi sud in una fredda mattina di dicembre 2020, sento prima uno strano odore acre e poi un’effimera presenza farinosa, che riconosco immediatamente come polvere.
A Kanpur, dove sono nata, la polvere sollevata dalle strade non asfaltate si è impadronita di interi quartieri e ha inghiottito intere autostrade. Fino a poco tempo fa a nessuno importava della qualità dell’aria. La vita è andata avanti. Quando eravamo fuori in balcone venivamo regolarmene assaliti da una pioviggine di polvere. A Dehli, questa mattina di dicembre, la sensazione è la stessa.
Guardando sul telefono le notizie del giorno vedo articoli sull’aumento dell’inquinamento atmosferico, vuote promesse del governo di affrontare la questione e foto apocalittiche della città. La gente del quartiere non è preoccupata e continua a vivere come se la qualità dell’aria fosse un aspetto secondario a cui non prestare troppa attenzione. Io, invece, comincio a essere ossessionata dall’angoscia che questo cielo sporco e grigio mi trasmette.
Tornata a casa, mi tolgo le scarpe e scopro di essermi portata dietro diversi grammi di polvere. È dappertutto. C’è un sottile strato di sporcizia sui miei vestiti, tra i miei capelli, sulla mia pelle. Per quanto la spazzoli via, sembra che non se ne vada mai. Nei pochi minuti che ci metto a chiudere la porta, la polvere si è insinuata nelle stanze e si è sparsa sul pavimento, come a sottolineare la sua presenza. Dopo qualche giorno smetto di farci caso e la vita, come sempre, continua.
Circondata da città satellite come Noida, Guruguram, Ghaziabad e Faridabad, negli ultimi anni Delhi è stata al centro di vari progetti di sviluppo edilizio. Queste zone sono sommerse da una coltre di smog. Uno spesso strato di polvere ricopre le finestre e secca le gole. Le fonti principali sono due: le auto che la sollevano nella vasta (e sempre più grande) rete stradale di Delhi e i cantieri. Anche i materiali grezzi come i mattoni e il cemento necessari a mandare avanti i lavori contribuiscono all’inquinamento dell’atmosfera. Il risultato di questa combinazione di fattori è un’aria talmente malsana che i medici consigliano ai bambini e agli anziani di portare sempre la mascherina.
Ogni inverno, quando arriva il freddo, i gas di scarico delle auto si mescolano alla polvere, creando uno strano e pesante strato di smog che avvolge la città per settimane. Se siamo fortunati, la pioggia riesce a dissipare la coltre per qualche giorno; altrimenti, soprattutto se non c’è vento, la cappa non se ne va. Ora mi rendo conto che quella che sto vivendo nella mia prima giornata d’inverno fuori Dehli è una realtà a cui i miei concittadini si sono ormai abituati.
Negli ultimi quattro anni questo smog ha radicalmente trasformato la mia esperienza della città. Stare sotto questo velo di polvere, sorvegliata giorno e notte dalla sua presenza incessante, mi ha portata a vivere una vita limitata. C’è una minaccia costante che incombe su di me. Vivere qui vuol dire assistere a un annullamento del tempo, provare un senso opprimente di pesantezza allo stomaco, un nodo sopra l’altro. Provo a fare un programma della giornata e inevitabilmente salta; provo a farne un altro e salta di nuovo. Tutto è pericoloso: fare ginnastica, andare a correre, perfino camminare.
A causa della polvere, le mie interazioni con l’esterno erano limitate già prima della pandemia. Ora uscire è diventato ancora più angoscioso. Nel tentativo di placare momentaneamente la paura alcuni miei amici si sono comprati la macchina per evitare di usare i mezzi pubblici; altri hanno preso dei tapis roulant per evitare di correre all’aperto o dei purificatori per respirare aria pulita in casa.
A Chittaranjan Park, il ricco quartiere nella zona sud di Delhi dove abito, oggi ci sono più lavori in corso che case. I residenti vendono le case di famiglia ai costruttori, che stanno tirando su palazzi a ritmi fino a poco tempo fa impensabili. Camminando incontro più di sette cantieri nel giro di cinque minuti. Sono tutti uguali: pile di detriti scoperti caduti a terra, nessuna recinzione che impedisca al vento di spargere la polvere per le strade e giganteschi cumuli di sporcizia ammassati in lotti vuoti.
Ormai assuefatta, la gente guarda attraverso questi cantieri come se fossero trasparenti. Sottovalutata da molti come una questione di scarsa importanza, la polvere a Delhi è diventata un’estensione della vita quotidiana. Già prima della pandemia spendevamo circa 1.500 rupie (circa 17 euro) a testa per le mascherine N95 da utilizzare durante il Diwali. Nel mio lavoro precedente, dove dividevamo l’ufficio con un’azienda giapponese, vedevo i colleghi che venivano dai paesi del sudest asiatico che uscivano ed entravano con la mascherina chirurgica tutto l’anno. Li guardava pensando che magari sapevano qualcosa che io non sapevo. In realtà lo sapevo benissimo, ma preferivo non ammetterlo.
La polvere ha rigidamente dettato le regole delle mie interazioni con la città negli ultimi quattro anni. L’ho vista entrare e quasi mai uscire. L’ho vista peggiorare il livello dell’inquinamento della città durante il Diwali. Pur di andare avanti, però, diamo la colpa ai vicini che bruciano le stoppie. La polvere, per me, è diventata un modo per capire i ritmi dello sviluppo fisico della città. Delhi è diventata una specie di spazio transitorio dove la polvere si trasforma da elemento naturale a materialità concreta, facendo e disfacendo la città.
Per quanto sia cattiva, l’aria che respiro durante le mie passeggiate a Delhi è comunque una pallida versione di ciò che devono aver sopportato i miei genitori a Kanpur. Ex centro industriale, la città è entrata in declino dopo la chiusura delle fabbriche. Mi ricordo che nella prima metà degli anni novanta mia nonna bruciava il carbone nella veranda della nostra casa per riscaldarci durante l’inverno.
Per molti, questa cappa è solo l’ennesima manifestazione del disinteresse del governo, di un senso costante di apatia e abbandono. Da bambina ho interiorizzato l’idea che tutti respiriamo la stessa aria. Ora però intorno a me vedo qualcosa di diverso: l’aria pulita è sempre di più una merce che si può comprare. La polvere è diventata un aspetto tangibile della vita, parte integrante del grigiore del paesaggio, incombente come un aggettivo banale. Dobbiamo tenerne conto in ogni momento, anche quando organizziamo brevi vacanze nei dintorni di Delhi e, preoccupati per le allergie, ci portiamo dietro medicine e mascherine. L’aria che respiriamo era una cosa che davamo per scontata ma oggi, a Delhi, ne sento l’odore, il sapore, la pesantezza sui palmi delle mani. È entrata di forza nella mia vita, seguendomi ovunque senza che me ne accorga.
Durante la tempesta di polvere del 30 marzo, dopo aver chiuso ermeticamente le porte e le finestre, riesco quasi a sentirla mentre s’insinua sotto le soglie e tra gli interstizi. Si posa, come stanca dopo tanto viaggiare, spandendosi dappertutto in un sottile strato fuligginoso. Avvertendo la sua presenza intorno a me, mi accorgo di come la polvere è ormai parte del mio essere. Per quanto provi a toglierla, non se ne va mai davvero.
La polvere ha preso ormai la forma della paranoia, di una paura che mi costringe ripetutamente a pulire, strofinare, spolverare e lavare ogni angolo della casa.
In India c’è un patetico senso di normalità intorno alla polvere, una sorta di rassegnazione di fronte al fatto che non ce ne libereremo mai. Provo a combattere questo aspetto immutabile della vita, a respingere questa sensazione sforzandomi tutti i giorni di ricordare che eravamo qui anche prima della polvere. Oppure no? ◆ fas
Anandi Mishra è una giornalista indiana. Vive a Delhi. Questo articolo è uscito su Al Jazeera con il titolo “I smell it, taste it, feel its heaviness”: life in Delhi’s dust.
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Questo articolo è uscito sul numero 1416 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati