La crescente frammentazione è una delle caratteristiche principali della politica europea oggi. In vari paesi, il voto è distribuito più equamente nello spettro parlamentare che in passato, e obbliga a dinamiche di dialogo e consenso sempre più complesse. Come in altre circostanze storiche, l’Italia su questo tema anticipa i tempi e diventa quindi un interessante laboratorio.
Il suo percorso degli ultimi decenni serve da avvertimento sull’effetto devastante di una frammentazione mal gestita, sterile, ostile o incapace – addirittura timorosa – di fare grandi cambiamenti. E dimostra quanto sia difficile riprendersi una volta che si comincia a vacillare in questo modo.
L’Italia mantiene tratti di eccellenza in molti settori. Ha un’industria solida, una società civile vitale, un istinto irriducibile per la bellezza. Ma chiunque la conosca da un po’ avverte un senso di declino, una malinconia di fondo che è la traduzione emotiva dei freddi dati macroeconomici. Due elementi spiccano su tutti: vent’anni di stagnazione (tra il 2001 e il 2020 il pil si è ridotto in media dello 0,2 per cento all’anno, contro una crescita dello 0,8 per cento nell’eurozona e dell’1,2 per cento in Germania); e l’emorragia di talenti ed energie, con quasi un milione di italiani emigrati nell’ultimo decennio. E nel 2019 un italiano emigrato su quattro ha la laurea, secondo l’Istituto nazionale di statistica (Istat).
Il declino sembra riflettersi anche sul piano culturale, che nei primi decenni della repubblica italiana era a livelli stratosferici con titani come Calvino, Montale, Pavese, Fellini, Pasolini e tante altre figure universali.
Naturalmente l’eccellenza rimane: Giorgio Parisi ha appena ricevuto il premio Nobel per la fisica e ci sono molti brillanti intellettuali e artisti. Ma è difficile sfuggire alla sensazione che questo slancio stia rallentando. Che l’inefficienza della politica abbia finito per agire come un’enorme zavorra sul paese. Con poche eccezioni, per decenni la politica italiana è rimasta arroccata in una logica miope, in compromessi di bassa lega, anteponendo l’immediato al domani, gli anziani ai giovani, la comodità al sogno. Naturalmente la politica non è un’entità isolata e i suoi fallimenti sono un riflesso dei limiti della società. Ci sono ragioni storiche, culturali ed etiche alla base del declino.
Azioni dolorose
Oggi , con Mario Draghi al governo, quella malinconia tinta di rassegnazione sembra mitigata da un po’ di speranza, a volte intrisa di fede quasi mistica. La speranza è che Draghi riesca a restituire vitalità all’Italia. Tirarla fuori da questa deriva, da questa abitudine di rimandare le decisioni difficili, evitando ogni azione dolorosa nell’oggi anche se è per il bene futuro, o di scalfire interessi privati importanti, anche se è per il bene comune. È un modo di vivere che equivale a morire sani e salvi a poco a poco.
C’è stato un momento simile nel 1993 con il governo Ciampi, un altro ex governatore della Banca d’Italia di grande levatura. Quell’esperienza illustra quanto sia difficile che una brillante leadership isolata produca effetti positivi duraturi. L’unica soluzione alla frammentazione parlamentare è il rispetto per i voti di tutti i cittadini, e la volontà di pagare un prezzo politico per il bene collettivo.
A volte è difficile tracciare un confine tra un cambiamento coraggioso e uno irrazionale. Molte vite restano segnate per sempre da un errore di calcolo di fronte a questi dilemmi.
Ma forse è ancora peggio rimanere paralizzati, bloccati nell’incapacità di decidere da una malsana frammentazione della volontà che, incruenta, uccide un po’ di più ogni giorno. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1436 di Internazionale, a pagina 37. Compra questo numero | Abbonati