Chi scrive biografie non autorizzate spesso riceve rimostranze ufficiali. Nel 2004, quando Kitty Kelley ha pubblicato La famiglia. La vera storia della dinastia Bush, l’allora leader di maggioranza alla camera degli Stati Uniti Tom DeLay, incline al dramma, ha scritto all’editore, Doubleday, dicendo che l’autrice era in una “fase avanzata della sua carriera patologica”. Kelley era contraria ai libri autorizzati e sosteneva che l’arte della biografia non doveva diventare un ramo dell’industria delle relazioni pubbliche. L’approvazione era irrilevante. Si può dire che Kelley traeva fin troppo piacere dallo scovare nefandezze. Una volta rubò a Christopher Hitchens una spilletta con la scritta “Ho tutti i nemici giusti”.

Per il biografo intraprendente scegliere chi odiare è una scienza esatta. Con un atteggiamento di superiorità morale pronto in tasca, l’impavido giornalista a caccia di scandali tende a individuare soggetti il cui orrore privato riflette bene l’orrore dei tempi, preparando il terreno per un’esplosione di pettegolezzi e spazzatura. David Beckham, che una volta aveva un piede destro magico, un viso dolce, una voce acuta e una propensione a posare in mutande firmate per la stampa mondiale, poteva rivelarsi un personaggio strepitoso già da solo, un reality show ambulante. Ma gli dei della narrazione sono buoni e all’età di 24 anni il nostro eroe ha incontrato Victoria Adams, “Posh” Spice, una donna con un broncio perpetuo, un appetito quasi insaziabile per tutto ciò che è griffato e un intuitivo approccio postmoderno all’interpretazione del termine privacy. Si sono sposati nel 1999 e hanno avuto quattro figli, Brooklyn, Romeo, Cruz e Harper, l’unica femmina. I Beckham sono britannici nuova maniera, come i ricchi che vivono la maggior parte dell’anno in posti come Dubai e Miami, che amano la famiglia reale e odiano l’imposta sul reddito, mentre condannano la stampa di cui si servono senza tregua. Riempiono le loro giornate di autocommiserazione e si lamentano di non aver ancora ricevuto il cavalierato che chiaramente si meritano. Il libro di Tom Bower lascia una sensazione di sbornia, come se la grande festa thatcheriana avesse finalmente raggiunto l’alba, come se la Brexit e gli abiti firmati si fossero estinti, restituendoci il sollievo del lungo ritorno a casa e la sensazione che l’intera faccenda fosse, in fondo, un esperimento di irrealtà.

David Beckham poteva rivelarsi un personaggio strepitoso già da solo. Ma poi ha incontrato Victoria Adams, una donna con un approccio postmoderno alla privacy

Mettiamo le cose in chiaro su David Beckham. Gli piace l’ananas sulla pizza. Guarderebbe all’infinito Il re leone. Ammette di non aver mai letto un libro in vita sua, compresi quasi certamente quelli che ha scritto lui (non è arrivato in fondo neanche a quelli di Posh). Si dice che una volta abbia posato indossando una maglietta di Adolf Eich­mann con una bottiglia di Moët & Chandon in mano, senza sapere chi fosse l’uomo sulla maglietta, ma conoscendo la marca di champagne. Nei suoi momenti migliori è una Dorothy Parker al contrario, che piazza l’ennesima dichiarazione stravagante in rete. Cose come: “Abbiamo tutte le intenzioni di battezzare Brooklyn, ma non sappiamo ancora con quale religione”.

Le risate si smorzano quando si considera la sua spensierata disponibilità a prestare il nome ai Mondiali di calcio del Qatar nel 2022 scegliendo, per dieci milioni di dollari, di sostenere i combustibili fossili, l’omofobia, lo sfruttamento degli immigrati, la repressione istituzionale delle donne e i talebani. Ha ribadito più volte che i soldi non gli interessano, eppure permette regolarmente che il suo nome resti invischiato in “opportunità d’affari” che lo disonorano.

Seguendo Beckham dal Manchester United al Real Madrid, da lì al LA Galaxy, al Milan, al Paris Saint-Germain e ai suoi affari in Qatar, Bower s’impegna a fondo nello scandagliare le sue operazioni fiscali, formando un ritratto della negligenza civica che si è diffusa nel Regno Unito dell’austerità. Beckham si sarà anche sorbito dodici ore di coda per rendere omaggio alla regina nella camera ardente, ma lo stato in sé non gli interessa, se non nel modo ipersentimentale in cui i fan interpretano il concetto di lealtà.

Per fortuna c’è Posh a tenere alto l’umore. Il punto cruciale di Victoria è che è tutto tranne che posh (snob). Il momento più divertente in Beckham, l’agiografia di Netflix diretta da Fisher Stevens, è quando il nostro eroe fa capolino dalla porta mentre la moglie viene intervistata. “Entrambi veniamo da famiglie che hanno lavorato duramente”, dice lei. “Famiglie di lavoratori, classe operaia”.

“Di’ la verità”, dice Beckham dalla porta.

“Sto dicendo la verità”.

“Di’ la verità! Con che macchina ti accompagnava a scuola tuo padre?”.

Lei protesta per un attimo, poi si rivolge alla telecamera come una bambina rimproverata. “E va bene, negli anni ottanta mio padre aveva una Rolls-Royce”.

“Grazie”, dice lui, chiudendo la porta.

Bower ripercorre quei fatti: “La vendita all’ingrosso di materiale elettrico aveva permesso a Tony Adams di comprare una Rolls-Royce di seconda mano e a sua moglie Jackie di avere uno stile di vita confortevole. A entrambi i genitori è stato riconosciuto il merito di aver instillato nella figlia una feroce ambizione e la passione per lo spettacolo”.

Nell’ordine cosmico, forse è giusto che i cacciatori di trofei si sposino con altri cacciatori di trofei. L’ossessione per gli “obiettivi personali” potrebbe perfino sembrare così naturale da diventare una sorta di appagamento. In ogni caso, essere sposati con Posh dev’essere piuttosto estenuante. Per lei il sesso è come qualcosa che si fa in palestra: ne parla pubblicamente in termini di livelli, massa, longevità e circonferenza (“Ce l’ha davvero enorme, è come il tubo di scappamento di un trattore”). Alcune coppie dormono in camere separate. I Beckham hanno deciso di separare i continenti, con Posh che ha rilanciato la sua carriera in declino intraprendendone un’altra come stilista, che le ha fruttato discrete recensioni e ingenti perdite, mentre Beckham ha sponsorizzato tutto ciò su cui poteva mettere la mani. Forse il fatto di non essere nata per fare la moglie di un calciatore le rende onore, ma è anche vero che in quel ruolo si è dimostrata incredibilmente impacciata, rifiutando di trasferirsi in Spagna quando lui aveva firmato con il Real Madrid, e poi negando la sua presenza a Milano o a Parigi mentre suo marito giocava là. Lei voleva Los Angeles. Il vero traguardo era frequentare Tom Cruise a Beverly Hills. Alex Ferguson, che aveva acquistato Beckham per il Manchester United, non era un fan di Victoria e del suo ruolo di influencer di moda che vestiva David con sarong, pantaloni in pvc e cappelli tibetani fatti a maglia. “L’ho visto diventare una persona diversa”, ha detto Ferguson, irrefrenabilmente repressivo, da bravo scozzese.

Davide Bonazzi

C’è un motivo letterario nella prosa inglese, introdotto da Daniel Defoe in Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders. Il romanzo intende condannare le stravaganze sessuali di Moll ma indebolisce l’obiezione morale, permettendo alla prosa di surriscaldarsi ogni volta che viene descritta l’azione censurata. Questo trucco è stato sfruttato dai biografi per secoli. In The house of Beckham, Bower condanna duramente lui per le presunte scappatelle, ma ogni volta la temperatura delle sue descrizioni sale fino a farci sudare dall’imbarazzo. Voglio dire, a chi importa davvero se David Beckham, solo in una città straniera a 28 anni, si è scopato la modella Rebecca Loos in un hotel di Madrid o ha pomiciato con qualche ragazza in un night club o ha lasciato che una modella di passaggio gli si sedesse sulle ginocchia? Forse importa poco anche a Bower, eppure quando ne parla esprime un livello d’indignazione quasi ridicolo: “Loos ora afferma di essere stata attratta dalla vulnerabilità di Beckham. E inevitabilmente dal suo aspetto. Un video girato da Sam Taylor-Johnson con Beckham addormentato nella sua camera d’albergo a Madrid rivela un adone mozzafiato. A torso nudo e con i capelli biondi, Taylor-Johnson ha immortalato il bell’addormentato, l’icona”.

La maestra dei romanzi rosa Jilly Cooper non avrebbe saputo fare di meglio, e neanche Defoe. Ma il filone cominciato da Defoe non è gentile con le donne. Moll Flanders è un’artista della truffa, una ladra, “una creatura abominevole”, una mantenuta e una maledizione. Con i suoi gemiti di eccitata repulsione, Bower sembra detestare Posh Spice. “Ha sempre esposto il seno a beneficio dei fotografi”. Ha esposto il seno? Sempre? In realtà ha indossato qualche abito scollato ogni tanto, mentre suo marito praticamente andava in giro in slip striminziti, nei suoi lunghi turni da Adone. Bower parafrasa un giornalista di un tabloid per elencare le somiglianze di Victoria con la siliconata modella Katie Price: “Tette finte, capelli farlocchi e palate di trucco”. Per Bower lei è tutta chincaglieria e menzogne, che hanno allontanato dalla retta via l’uomo talentuoso. È bisognosa. Emotiva. E poi, naturalmente, nel libro emerge lo snobismo che la mette ordinatamente al suo posto. È, o vuole essere, “la cassiera del supermercato che tutti dicono di amare”.

Il Regno Unito non è stato un bel posto durante l’impero dei Beckham, e il loro è stato un vero e proprio impero: come dimenticare i troni di velluto al matrimonio nel castello di Luttrellstown? Leggendo il libro si scopre che erano stati acquistati dal Sunday Mirror per millecinquecento sterline e poi messi in palio dal giornale con un concorso.

Il direttore aveva suggerito a Posh di donarli al lettore vincitore. “No”, aveva risposto al giornale Caroline McAteer, assistente della star. “Vic li vuole. In regalo”. Bower racconta:

Il direttore della rivista disse di sì, ma solo se Victoria avesse accettato di farsi fotografare mentre riceveva il regalo dal giornale. McAteer acconsentì, ma ci fu un intoppo. Senza alcuna fanfara, i troni furono scaricati dal camion davanti a casa dei Beckham. Suonarono al campanello.

McAteer manifestò il suo sdegno: “Victoria vuole essere colta di sorpresa”, esclamò furibonda. La consegna doveva essere una rivelazione orchestrata. “Vuoi dire una messinscena?”, chiese il direttore.

Da quel momento, il Sunday Mirror e gli altri giornali scandalistici capirono che Victoria e Beckham volevano fare gli ingenui. Sembravano opporsi all’intrusione dei mezzi d’informazione, ma accettavano di mettersi in posa per scatti “rubati”. La loro collusione con i media doveva essere mascherata.

In questo senso, e non solo, i Beckham si sono comportati come veri reali. Hanno imparato dalla principessa Diana a mostrarsi favolosi e vulnerabili allo stesso tempo, e con il loro matrimonio hanno dato vita a quel tira e molla con la finzione che caratterizza la vita dei reali britannici di oggi, sia a Windsor sia nelle tenute spirituali californiane di Montecito. Per un paio di decenni, i Beckham hanno tenuto alto il vessillo nazionale mentre la casa reale perdeva pezzi, ma l’ambizione troppo schietta ha sempre suscitato diffidenza in Gran Bretagna, dove le Kardashian sono soprattutto oggetto di scherno. Le scelte della coppia ora sono giudicate ridicole: la Maserati per il diciottesimo compleanno di Romeo; Brooklyn sulla copertina della rivista New York con il titolo “L’anno dei figli di papà”; Cruz sulla rivista i-D con i jeans calati fino alle caviglie (“L’orgoglio di papà”, ha scritto David). E Harper che a sei anni si è presentata a Buckingham Palace per la sua festa di compleanno, organizzata dall’ex moglie del principe Andrea, “indossando stivali Gucci da 240 sterline, un cappotto Burberry in cachemire con monogramma da 695 sterline, un abito Versace da 1.525 sterline e una miniborsa in pelle Goyard da 1.200 sterline”.

Per un atteggiamento diverso nei confronti del successo, pensate a Taylor Swift durante il suo ultimo tour nel Regno Unito: in ogni città in cui ha suonato ha fatto una generosa donazione per assicurare il funzionamento dei banchi alimentari. L’amministratore delegato del St Andrew’s community network di Liverpool, che gestisce undici banchi alimentari e otto dispense comunitarie, ha detto che la donazione della cantante coprirà le spese per almeno un anno. A Cardiff, il responsabile del banco alimentare ha dichiarato al Guardian che il contributo avrà un impatto duraturo sulla città.

Bower sostiene che come rappresentante dell’Unicef Beckham non ha fatto abbastanza e non ha dato abbastanza soldi. Su questo non ho un’opinione. Ma sono stato ambasciatore dell’Unicef per più di vent’anni e ho notato un particolare: nonostante tutto, il nome di Beckham e il tipo d’ispirazione che suscitava potevano fare la differenza in un attimo. Nel 2006 ho visitato il Namasimba child centre in Malawi. Lì le ragazze erano tutte sottoposte a terapia antiretrovirale per arrestare la diffusione dell’aids. Ma l’immagine che rivedo con più chiarezza è quella di un ragazzo che spalava la sabbia ai bordi del villaggio. Quando mi sono avvicinato per parlargli, mi ha detto le uniche due parole che conosceva in inglese: “David Beckham”. ◆ svb

Andrew O’Hagan è uno scrittore e giornalista britannico. È nato a Glasgow, in Scozia, nel 1968. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Effimeri (Bompiani 2020). Questo articolo è una recensione del libro The house of Beckham: money, sex and power di Tom Bower (HarperCollins 2024). È uscito sulla London Review of Books con il titolo “Push me pull you”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati