Chipping Barnet, un verdeggiante quartiere residenziale nella zona nord di Londra, è una località improbabile per un’utopia femminista. Eppure è lì che si trova la prima comunità di cohousing (coabitazione) del Regno Unito riservata a donne di più di cinquant’anni.
L’ingresso di New Ground, con molte vetrate e cartelli scritti in caratteri grandi, potrebbe essere scambiato per uno spazio di coworking, e lo stesso vale per la sala comune in cui mi fanno accomodare. Tutto è luminoso, arioso e pulitissimo. Alle pareti sono allineate delle raffinate librerie bianche e una tv con schermo gigante. L’unico indizio dell’età delle inquiline è il puzzle da mille pezzi lasciato incompleto sul tavolo che dà sul grande giardino.
Un gruppo di donne eleganti mi accoglie calorosamente insieme a un buon odore di caffè. “Abbiamo dai 58 ai 94 anni”, dice Jude Tisdall, 71 anni, consulente d’arte. Come la maggior parte delle inquiline, vive qui da quando la struttura è stata completata, nel 2016. “Molte di noi lavorano ancora, altre fanno volontariato e sono attive nella comunità. Chi viene qui può pensare che effettivamente abbiamo tutte una certa età. Ma non possiamo essere definite vecchie”. Ed è vero che nessuna qui somiglia agli stereotipi delle anziane, tanto meno Tisdall, la cui foto è stata pubblicata da Vogue in un numero dedicato a “persone che rompono le regole” in quanto “pioniera del cohousing”.
A New Ground ci sono 25 appartamenti per 26 inquiline (c’è una coppia sposata), e otto sono unità di edilizia residenziale pubblica. Le case danno su un giardino pieno di fiori selvatici, bacche e alberi da frutto. La sala comune è usata per cene settimanali, serate di cinema e lezioni di yoga (“e non yoga sulla sedia, yoga quello vero”). C’è anche un appartamento per gli ospiti in visita che si fermano per la notte.
L’allusione alle visite mi spinge a porre la domanda scottante: gli uomini possono entrare? “Ma certo!”, dice Tisdall. “Abbiamo fratelli, padri, figli, nipoti, amanti e tutto quello che sta in mezzo. L’unica cosa che non possono fare è vivere qui”. Perciò se una di loro sposa un uomo deve trasferirsi? “Non necessariamente”, ride Tisdall, che è divorziata. “Avrebbe una scusa fantastica per poter dire: ‘Mi dispiace caro. Non posso vivere con te ma possiamo trascorrere dei bellissimi fine settimana insieme!’”
Il cohousing non somiglia affatto a una comune. Le persone occupano appartamenti che possono essere di proprietà o in affitto, e poi ci sono degli spazi condivisi per socializzare, seguire dei corsi e fare giardinaggio. Di certo è un’idea perfetta per quest’epoca. Nel 2021 nel Regno Unito 3,6 milioni di persone sopra i 65 anni vivevano da sole, e le donne erano il 70 per cento. Secondo l’ultimo rapporto del Center for ageing better, nel giro di dieci anni le persone di età superiore ai 65 anni saranno aumentate del 19 per cento, raggiungendo il 22 per cento della popolazione. Un ulteriore motivo di riflessione è il fatto che continua a scendere il numero di anni che possiamo prevedere di trascorrere senza malattie invalidanti: oggi è di 62,4 per gli uomini e 60,9 per le donne. Nonostante questi dati, il cohousing è ancora in uno stadio embrionale: ci sono solo 302 case in dieci comunità.
Facciamo un giro della struttura con un’altra inquilina, Hilary Vernon-Smith, 72 anni. Con le scarpe da ginnastica giallo limone e un taglio di capelli geometrico, ha l’aspetto di un’artista al lavoro, e in effetti il suo appartamento serve anche da studio. Prima di andare in pensione è stata per 28 anni caposcenografa al National theatre. Indicando il prato ovale al centro della struttura, spiega che le donne hanno lavorato in stretta collaborazione con gli architetti. “Gli studi indicano che un cervello affetto da demenza risponde in modo più positivo alle curve, e questa è una cosa di cui abbiamo tenuto conto”.
Data l’atmosfera rilassata, è facile sottovalutare la forza del gruppo. Per trasformare in realtà il sogno di New Ground ci sono voluti 18 anni di sviluppo, informazione, intense attività di rete e moltissimi incontri. Maria Brenton è ambasciatrice di Uk cohousing network e ha contributo a facilitare la nascita di New Ground nel 1998. “Le donne che hanno dato il via a tutto questo erano irremovibili: non volevano starsene sedute in una sala ricreativa per il resto della vita”, racconta. “Ci opponevamo con fermezza alle discriminazioni nei confronti degli anziani, al paternalismo e all’infantilizzazione da parte dei servizi sociosanitari”.
Un’idea illuminante
A New Ground le donne gestiscono tutto da sé e i compiti sono divisi tra squadre di responsabili della manutenzione, del giardinaggio, delle comunicazioni, delle pulizie e delle questioni legali. A beneficio di chi non comprende la necessità del modello per sole donne, Brenton racconta la storia eloquente di un complesso di cohousing in Canada che ha deciso di ammettere anche gli uomini “così ci sarebbe stato qualcuno a cui far cambiare le lampadine”. “Nel giro di sei mesi tutti i componenti del comitato di gestione erano uomini. Le donne che sono qui sanno cambiare una lampadina da sole”.
Brenton era una ricercatrice e si stava preparando a tenere un master sull’invecchiamento. Durante un viaggio di ricerca nei Paesi Bassi, ha scoperto il cohousing e si è chiesta se un’idea simile potesse prendere piede anche nel Regno Unito. “Dagli anni ottanta il governo olandese ha incoraggiato la pratica del vivere in gruppo come alternativa alle costose case di cura e agli istituti assistenziali. L’idea era che non solo sarebbe stato più economico, ma avrebbe permesso alle persone anziane di supportarsi a vicenda e di mantenersi più sane, più felici e più attive”.
Una volta tornata a Londra, Brenton ha contattato le principali reti di donne e ha organizzato un laboratorio. “Poi sei persone che vivevano da sole hanno dato vita all’Older women’s cohousing group”. Brenton ha ricevuto dei finanziamenti per far funzionare il gruppo e diverse centinaia di donne si sono unite all’iniziativa nel corso degli anni, ma non tutte sono vissute abbastanza a lungo da vedere il sogno diventare una realtà.
Vincere le diffidenze
Perché ci è voluto tanto? “Uno dei problemi era che non sapevamo cosa stavamo facendo”, racconta. “Nessuna aveva esperienza in materia di alloggi, edilizia o progettazione. Eravamo in tutto e per tutto delle principianti”. Il desiderio del gruppo di includere l’edilizia sociale complicava ulteriormente le cose. C’era bisogno di un’associazione per l’edilizia abitativa. Ma anche dopo aver trovato il sito, che nemmeno a farlo apposta era quello di una ex scuola femminile e confinava con un convento, hanno dovuto combattere per cinque anni contro il consiglio municipale per la progettazione.
Non si tratta solo di alleviare la solitudine, ma di diventare parte di un ecosistema
L’inquilina più anziana, Hedi Argent, di 94 anni, descrive un atteggiamento a suo avviso poco collaborativo: “Ricordo benissimo uno di loro che ci ha detto: ‘A Barnet vivono già abbastanza persone anziane’”. Secondo lei non ne volevano altre perché pensavano che questo avrebbe gravato ulteriormente sui servizi sociali e sanitari. In realtà però la struttura fa risparmiare soldi. Per esempio, le donne hanno istituito il sistema delle “amiche della salute”, in cui ogni persona ha una cerchia di due o tre amiche che passano a trovarla regolarmente per vedere come sta e si offrono di dare una mano per fare la spesa o cucinare se ha subìto un intervento di protesi al ginocchio o un’altra procedura che ne limita la mobilità.
“Facciamo attenzione le une alle altre, ma non ci accudiamo le une con le altre né ci occupiamo della cura personale”, spiega Argent. “Chi ha bisogno di assistenza fa venire qualcuno da fuori che l’aiuti”. Argent è entrata nel gruppo undici anni fa, quando il suo compagno è morto e lei si è trovata a vivere da sola. “Le mie due figlie erano preoccupate per me e io ho cominciato a preoccuparmi delle loro preoccupazioni. Ora questo circolo vizioso è finito”.
Argent vive comunque una vita piena di impegni. Un tempo editor di libri, accetta ancora degli incarichi da freelance e ha da poco finito di scrivere un’autobiografia in cui racconta della sua esperienza di fuga dall’Europa nazista quando aveva nove anni. Va spesso a parlare nelle scuole e a breve si unirà a lei Charlotte Balazs 70 anni, anche lei un’inquilina la cui famiglia è legata alla storia dell’olocausto.
“Questo posto è fantastico per fare rete”, dice Balazs, che prima viveva da sola in un appartamento senza spazi esterni. “Ho capito quanto fossi fortunata a vivere qui durante la pandemia. Ogni giorno alle due del pomeriggio facevamo ginnastica nel parcheggio e poi ci sedevamo in giardino. Ci facevamo consegnare la spesa e alcune di noi le prescrizioni mediche. Sembra melodrammatico, ma penso che senza questa comunità avrei avuto un esaurimento nervoso”.
Un altro esempio dei benefici di questa struttura lo offre Tisdall raccontando di quando è caduta e si è rotta una spalla: “Mia figlia e mia nipote venivano a trovarmi, ma non dovevano starsene tutto il tempo qui per assicurarsi che mangiassi e bevessi. C’erano persone che facevano la spesa per me e che venivano a farmi visita per bere un bicchiere di vino”.
Sembra un idillio, ma sul serio non ci sono aspetti negativi? Mi viene in mente che una persona naturalmente portata alla discrezione come me potrebbe trovare tutto questo particolarmente difficile. “Be’, c’è un’ottima insonorizzazione”, dice Argent, ridendo. “L’unica cosa che la mia vicina sente è l’acqua del mio bagno scorrere. Anzi, l’altro giorno è venuta a chiedermi se stavo bene perché non l’aveva sentita”. C’è poi l’inevitabile senso di frustrazione che deriva dal fatto che ogni decisione va presa con il consenso di tutte. Ann Beatty, 58 anni, aveva dei dubbi prima di trasferirsi. “Mi sono chiesta se fossi pronta per una cosa così. Però ero appena tornata dopo aver vissuto all’estero e non avevo né una casa né dei progetti per il futuro. All’inizio prendere delle decisioni condivise era un freno. Impediva alle persone di fare cose molto semplici come per esempio andare a comprare un orologio per la sala comune”. Da allora però, racconta, le cose sono migliorate. “Abbiamo imparato che non tutto richiede una decisione condivisa. Abbiamo fatto una formazione sul consenso e il processo decisionale, ci ha aiutate molto”.
I benefici del cohousing vanno oltre i servizi offerti a chi ci vive. Gli abitanti del quartiere frequentano New Ground e partecipano alle feste e alle giornate dedicate al giardinaggio. “La magia del cohousing è data dalla combinazione di persone fantastiche e di una progettazione collaborativa”, spiega Frances Wright, facilitatrice di comunità per l’impresa sociale di costruzione Town. Insieme alla sua partner di recente è andata a vivere in un appartamento più piccolo in un complesso della Town a Cambridge che mette a disposizione un laboratorio per il fai da te, una palestra e un negozio di prodotti tipici. C’è anche un servizio di automobili condivise e questo ha spinto Wright a rinunciare per la prima volta alla sua vettura. “Prendere le decisioni insieme può essere difficile. Però abbiamo lasciato una casa per vivere in un appartamento di due stanze, e non abbiamo la sensazione di aver sacrificato qualcosa”.
Mellis Haward, direttrice del gruppo di architetti Archio, ha diretto molti progetti di cohousing. “Le persone attratte dal cohousing di solito danno molta importanza alla possibilità di vivere accanto ai vicini. Non si tratta solo di alleviare la solitudine, ma è un modo per permettere alle persone di diventare parte di un ecosistema di famiglie e individui”.
Haward è convinta che occorra un cambio di mentalità per favorire la nascita di più progetti simili. “Nell’edilizia sta emergendo la tendenza a costruire dei complessi di cohousing”. All’improvviso ci si è accorti dei benefici dell’economia della condivisione? “In realtà nella rete del cohousing ci sono molte persone che cercano una casa. Quindi per i costruttori è un affare. Ma forse sono solo molto cinica”. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati