La globalizzazione è stata dichiarata morta moltissime volte. Ma nonostante tensioni e difficoltà, il sistema globale di produzione, commercio e finanza è rimasto in piedi. La globalizzazione è sopravvissuta alla crisi finanziaria del 2008, alla Brexit, a quattro anni di presidenza di Donald Trump e anche al covid-19, smentendo chi diceva che il virus avrebbe fermato le catene di approvvigionamento mondiali.
Si sarebbe tentati di concludere che la globalizzazione sia semplicemente troppo radicata nella società contemporanea perché si possa tornare indietro. Multinazionali come la Apple, che progettano i prodotti in California e li fanno costruire in Asia, ricavano enormi profitti dalla possibilità di assumere talenti, procurarsi materie prime e organizzare le attività di assemblaggio in vari paesi. Ma tutto questo è vero anche per le piccole imprese e il settore dei servizi. Di recente il Wall Street Journal ha parlato della Scottytest, un’azienda statunitense di indumenti da viaggio che prima ha cominciato con una ventina di impiegati nella sua sede di Ketchum, in Idaho, e ora, grazie a internet, ha stilisti in Ucraina, operatori del servizio clienti in Albania e addetti alle vendite in India.
Anche se la Brexit impedisce ai coltivatori britannici di impiegare manodopera dell’Europa dell’est, per raccogliere la frutta servono comunque braccianti stranieri, che vengono fatti arrivare dal Sudafrica e dall’Indonesia. Ed è vero che le carenze di container per le spedizioni e la chiusura dei porti a causa del covid-19 avevano interrotto la fornitura dei prodotti dall’estero, ma questo ha solo confermato quanto i consumi quotidiani dipendano ormai dalle merci importate. Aziende e consumatori sanno che la globalizzazione è un aspetto indispensabile del mondo contemporaneo. Tutto fa pensare che protesterebbero duramente – e con successo – contro i tentativi di riportare indietro le lancette dell’orologio.
Almeno questa è la teoria, perché le attuali minacce alla globalizzazione sono più gravi e diverse da quelle sventate in passato. Con il senno di poi, possiamo dire che l’epoca d’oro della globalizzazione sono stati i due decenni tra la fine del novecento e l’inizio degli anni duemila, culminati con lo scoppio della crisi finanziaria del 2008. In quei vent’anni le esportazioni e le importazioni mondiali sono aumentate più del pil globale, trainate dalla rapida crescita della Cina e dalla sua integrazione – insieme ad altri mercati emergenti – nel sistema del commercio e della finanza internazionali. Una fetta sempre maggiore di questo commercio aveva riguardato i ricambi e la componentistica, settori in cui le innovazioni nel trasporto (i container) e nelle comunicazioni (internet) avevano favorito la disaggregazione e la distribuzione internazionale dei processi di produzione. Negli stessi anni anche i flussi finanziari attraverso le frontiere erano cresciuti più del pil globale.
Negli ultimi quindici anni, al contrario, il commercio internazionale e i flussi di capitale sono cresciuti allo stesso ritmo del pil. Oggi le esportazioni sommate alle importazioni mondiali sono pari al 50 per cento del pil globale, come prima della crisi del 2008. Anche le attività finanziarie internazionali sono tornate ai livelli precedenti la crisi. Forse la globalizzazione non è finita, ma l’epoca della “iperglobalizzazione” è evidentemente passata. Cos’è cambiato? E dove sta andando l’economia globale? Come spesso succede, ci sono più fattori in gioco. Negli ultimi anni la crescita economica a due cifre della Cina ha rallentato, insieme al contributo cinese allo sviluppo del commercio e degli investimenti internazionali. In risposta alla crisi finanziaria globale, le banche hanno ridotto i livelli d’indebitamento, mentre la regolamentazione del settore bancario è diventata più severa, frenando il tasso d’espansione vertiginoso dei prestiti interbancari internazionali.
Il sistema politico ha preso nota dei disagi che Trump cercava di sfruttare
In tre parole
Ma se dovessimo riassumere in tre parole le difficoltà della globalizzazione negli ultimi quindici anni, potremmo usare queste: ascesa del populismo. Una serie di crisi e il modo in cui i governi l’hanno gestita hanno alimentato un crescente malcontento popolare verso il sistema economico globale. Durante la crisi finanziaria del 2008 Wall street (la grande finanza) è stata salvata, ma Main street (la gente comune) no. Come raccontano Daron Acemoglu e Simon Johnson nel loro ultimo libro, Power and progress, nell’autunno 2008 la compagnia assicurativa statunitense Aig aveva incassato 182 miliardi di dollari di aiuti dalla Casa Bianca per evitare il fallimento, ma questo non le impedì di pagare mezzo miliardo di dollari di bonus ai suoi dirigenti, alcuni dei quali erano stati tra i responsabili dei problemi dell’azienda. Nove società finanziarie, tra le principali beneficiarie dei fondi di salvataggio, pagarono ai dipendenti bonus per più di un milione di dollari.
I lavoratori licenziati in seguito alla recessione non ebbero sostegni altrettanto generosi. Un contraccolpo era prevedibile. A sinistra nel 2011 si materializzò la campagna Occupy Wall street e poi il movimento globale Occupy, guidato da giovani che denunciavano la disuguaglianza, la finanza globale e l’influenza politica sproporzionata dell’1 per cento più ricco della popolazione. Occupy è stato un movimento politico importante – anche se un po’ vago e confuso – ma non ha abbattuto la globalizzazione finanziaria. Alcuni politici di sinistra, non insensibili a quel messaggio di Occupy, si erano già attivati per combattere gli eccessi della globalizzazione finanziaria.
Negli Stati Uniti Barney Frank ed Elizabeth Warren promossero leggi per tutelare i consumatori, aumentare i controlli sulla finanza e limitare i futuri salvataggi bancari. Nel 2012 il Regno Unito adottò il Financial service act, che istituì nuove autorità di vigilanza, la Financial conduct authority e la Prudential regulation authority, oltre ad aumentare i poteri di vigilanza della Banca d’Inghilterra, per sorvegliare meglio le principali istituzioni finanziarie. La Banca centrale europea decise di limitare drasticamente i flussi internazionali. Gli esperti del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria elaborarono nuove regole sulla quantità di capitale che le banche devono avere a disposizione. Forse si può discutere dei limiti di queste riforme, ma in qualche modo hanno rappresentato una risposta al malcontento popolare.
Poi nel 2016 ci sono state la Brexit e l’elezione di Donald Trump, due tipiche manifestazioni di populismo. Trump ha sfruttato il risentimento contro le élite e la xenofobia (la classe politica e finanziaria e l’immigrazione sono due classici bersagli della furia populista). In campagna elettorale disse che la globalizzazione, insieme al deep state, era il problema principale degli Stati Uniti: il sistema globale degli scambi penalizzava le imprese statunitensi; l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) trattava “malissimo” il paese; l’immigrazione minacciava la prosperità e lo stile di vita degli statunitensi. La sua risposta, una volta eletto presidente, furono i dazi alle importazioni dalla Cina, dall’Europa e dal Canada. Trump minacciò di uscire dalla Wto e bloccò le nomine dei suoi vertici, uscì dall’accordo commerciale Trans-pacific partnership (Tpp), riscrisse il North american free trade agreement (Nafta) e cominciò a costruire un “grande, bellissimo muro” lungo la frontiera meridionale con il Messico. Neanche lui, però, è riuscito a invertire il corso della globalizzazione. Le élite bancarie e imprenditoriali, consapevoli dei vantaggi di un’economia globalizzata (soprattutto per loro), si sono opposte alle minacce di uscire dalla Wto e ai dazi più clamorosi. La Silicon valley, che poggia su un numero consistente di imprenditori e ingegneri stranieri, era contraria alle restrizione delle leggi sull’immigrazione. Tutto questo dimostra che la globalizzazione è ormai profondamente radicata.
Prospettive di occupazione
Intanto il sistema politico ha preso nota dei disagi che Trump cercava di sfruttare. Riconoscendo il cosiddetto China shock – il fatto che l’aumento delle importazioni da economie come quella cinese ha un impatto sproporzionato sulle prospettive di occupazione dei lavoratori in alcune zone del paese – l’amministrazione democratica di Joe Biden ha confermato i dazi nei confronti di Pechino. Per contrastare la disuguaglianza, ha appoggiato (con esiti alterni) l’innalzamento del salario minimo, la cancellazione dei debiti degli studenti e l’aumento delle tasse per i cittadini più ricchi. Ha deciso sussidi e agevolazioni fiscali per le imprese che riportano negli Stati Uniti posti di lavoro nell’industria. Le sue proposte di riforma dell’immigrazione, per la verità, si sono arenate al congresso. Tuttavia, il senso complessivo di queste misure è stato scongiurare gli eccessi della globalizzazione e risarcire gli sconfitti. È stato il segnale che la politica li ascoltava.
Lo scopo dichiarato della Brexit, invece, era “riprendere il controllo”, strappandolo dalle mani dei burocrati senza volto di Bruxelles, bestia nera dei critici britannici della globalizzazione. La Brexit è stata una risposta all’impossibilità del Regno Unito di disciplinare l’immigrazione a suo piacimento – su base economica e identitaria – finché il paese fosse rimasto nel mercato unico europeo. Ma è stata anche una risposta al China shock: studi come quello di Italo Colantone e Piero Stanig, dell’American Political Science Review, mostrano che il sostegno all’uscita dall’Unione europea era maggiore nelle regioni più colpite dalla concorrenza cinese.
La Brexit non ha migliorato le prospettive economiche britanniche né ha scalfito la globalizzazione. I suoi sostenitori affermavano che il Regno Unito avrebbe rapidamente negoziato una serie di accordi bilaterali di libero scambio con decine di paesi. Stiamo ancora aspettando. La Brexit non ha nemmeno danneggiato la dimensione europea della globalizzazione, dato che le evidenti difficoltà del Regno Unito non hanno incoraggiato gli altri paesi a seguire il suo esempio.
E non ha fatto diminuire l’immigrazione, che nel 2022 ha raggiunto il suo massimo storico: ha solo cambiato il paese d’origine degli immigrati; la domanda di medici e infermieri stranieri, oltre che dei raccoglitori di frutta, non è diminuita.
Gli Stati Uniti hanno tagliato le vendite ai produttori cinesi di microprocessori
Il covid-19 avrebbe potuto danneggiare seriamente la globalizzazione, con le frontiere chiuse, le navi da carico ammassate davanti al porto di Long Beach, negli Stati Uniti, e le aziende alle prese con la fragilità delle catene di approvvigionamento globali. Avrebbe potuto esacerbare le relazioni tra gli Stati Uniti e la Cina e alimentare la xenofobia, tra voci di virus sfuggiti da un laboratorio e di infezioni trasportate in aereo dall’estero. In un contesto del genere c’era il forte rischio di una nuova, potenzialmente fatale, offensiva populista alla globalizzazione. Alla fine, però, le cose sono andate diversamente. I governi hanno assicurato un sostegno senza precedenti alle fasce di popolazione più minacciate dalla pandemia e il rischio di un contraccolpo è stato contenuto.
I settori della globalizzazione più colpiti dalla pandemia si sono ripresi. Il turismo internazionale è tornato attivo grazie ai vaccini e all’immunità naturale. Il Global supply chain pressure index della Federal reserve bank di New York (uno dei dodici istituti regionali della banca centrale statunitense), che misura soprattutto i costi del trasporto merci marittimo e aereo, è tornato sotto i livelli precedenti al 2020, confermando l’impressionante adattabilità della logistica globale.
È l’ennesima prova del fatto che sul piano strettamente economico la globalizzazione presenta vantaggi enormi. Tuttavia questo fenomeno non riguarda solo l’economia, ma anche la sicurezza, nazionale e internazionale. E qui sta la minaccia più reale e concreta. Gli Stati Uniti stanno assumendo una posizione più aggressiva sul commercio di tecnologie avanzate con la Cina. In parte, questo riflette il desiderio di ostacolare l’ascesa economica del paese asiatico e di proteggere i posti di lavoro negli Stati Uniti. Ma l’obiettivo principale di queste misure è rallentare l’acquisizione e lo sviluppo cinese di tecnologie da usare per scopi militari e civili, che garantirebbero a Pechino vantaggi nello spionaggio e nel settore della difesa.
Per questo nel 2022 Washington ha vietato la vendita e l’importazione di una serie di nuovi dispositivi di comunicazione prodotti dalle aziende cinesi Huawei e Zte, temendo l’intrusione di Pechino nelle telecomunicazioni statunitensi. La Casa Bianca ha imposto restrizioni sui sistemi di videosorveglianza e radio sviluppati dalle aziende cinesi Hikvision, Dahua e Hytera, specificando che l’importazione e la vendita di questi sistemi potrebbe essere approvata solo se si dimostrasse il loro uso per scopi diversi da quelli legati alla sicurezza nazionale.
Poi, all’inizio del 2023, l’amministrazione Biden ha bloccato l’approvazione della maggior parte delle licenze che consentono alle aziende statunitensi di vendere i loro prodotti alla Huawei. Trump aveva già aggiunto il gruppo cinese alla lista nera del commercio, ma Washington aveva continuato a concedere licenze a singole aziende statunitensi, come la Qualcomm e la Intel, a condizione che le loro esportazioni non fossero collegate alla tecnologia 5g.
Gli Stati Uniti hanno inoltre ridimensionato le vendite ai gruppi industriali cinesi specializzati nella produzione di microprocessori e semiconduttori avanzati usati in ogni tipo di tecnologia, dall’intelligenza artificiale alle armi ipersoniche. Ad agosto, infine, Biden ha emesso un ordine esecutivo che riduce gli investimenti statunitensi in Cina in settori dell’alta tecnologia, come la microelettronica e i computer quantistici.
Pechino ha risposto mettendo al bando due aziende statunitensi dell’aerospazio e della difesa, che ora non possono vendere, comprare o investire in Cina, limitando le esportazioni sul gallio e il germanio, due metalli molto usati nei semiconduttori e nei veicoli elettrici, e annunciando un provvedimento simile sulle esportazioni delle terre rare. Insomma, sono stati colpiti i tre filoni principali della globalizzazione che legano Stati Uniti e Cina: il commercio, gli investimenti e le migrazioni. La Casa Bianca, inoltre, consapevole che in un mondo globalizzato le misure unilaterali sono inefficaci, ha cercato il sostegno di altri paesi. Washington ha fatto valere la cosiddetta regola del “prodotto diretto estero”, vietando alle aziende di altri paesi di vendere alla Huawei qualsiasi merce che faccia uso di tecnologie statunitensi. Le associazioni europee del settore tecnologico si sono opposte, ma non hanno potuto fare molto. Gli Stati Uniti hanno invitato il governo olandese a bloccare la vendita di macchine avanzate per la progettazione dei microprocessori prodotte dall’Asml, l’unica azienda al mondo oggi in possesso di questa tecnologia. Gli olandesi hanno risposto ricordando agli Stati Uniti che la politica commerciale europea è decisa a livello dell’Unione europea. A marzo, però, hanno ceduto alle pressioni statunitensi.
Due questioni
Come Washington, c’è da aspettarsi che Pechino faccia lo stesso con i paesi della sua sfera d’influenza. Il futuro della globalizzazione ruota intorno a due interrogativi. Ecco il primo: due potenze rivali come gli Stati Uniti e la Cina possono limitare il commercio, gli investimenti e il trasferimento di conoscenze su prodotti e processi con implicazioni militari e di sicurezza nazionale e continuare a fare affari su tutto il resto? Oppure le tensioni si allargheranno con ricadute negative sui rapporti tra i due paesi?
Nonostante le tensioni, gli Stati Uniti restano uno dei più importanti partner commerciali della Cina, e viceversa. La segretaria al tesoro statunitense Janet Yellen ha assicurato che le restrizioni resteranno “mirate” e che “non ci saranno controlli ad ampio raggio in grado di pregiudicare gli investimenti statunitensi in Cina”. L’obiettivo è “diversificare”, non “disaccoppiare” (rendersi indipendenti).
Ma il concetto stesso di sicurezza nazionale, o almeno il suo campo di applicazione, è piuttosto fluido. I veicoli elettrici con computer di bordo che ricevono aggiornamenti software online e sono costruiti grazie a tecnologie straniere costituiscono un rischio di sicurezza nazionale se, per esempio, i movimenti dei passeggeri sono tracciati?
Allo stesso modo, la distinzione tra diversificazione e disaccoppiamento è una questione di punti di vista. Nel 2022 gli investimenti diretti esteri statunitensi in Cina hanno toccato il minimo da vent’anni. Dal 2021 al 2022 gli investimenti statunitensi in capitale di rischio in Cina sono scesi del 75 per cento. Più disaccoppiati di così è difficile. Nei primi cinque mesi del 2023 le importazioni statunitensi di merci dalla Cina erano in calo del 24 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il Messico ha superato la Cina come primo partner commerciale degli Stati Uniti. Aziende statunitensi come la Hp e la Apple stanno spostando la produzione dalla Cina ad altri mercati emergenti. Certo, è difficile stabilire quanto queste tendenze siano il frutto delle tensioni geopolitiche e quanto dell’aumento dei costi, del rallentamento della crescita e della repressione politica in Cina. Ma senza dubbio le tensioni geopolitiche che fanno prevedere possibili ulteriori restrizioni al commercio e agli investimenti bilaterali sono uno dei fattori decisivi.
Il secondo interrogativo è se gli altri governi saranno costretti a fare una scelta di campo o potranno continuare a fare affari con gli Stati Uniti e la Cina. Paesi come la Germania, solidi alleati di Washington ma fortemente dipendenti dal mercato cinese, vorrebbero entrambe le cose. La strategia per le relazioni con la Cina pubblicata dal governo tedesco in estate definisce il paese asiatico un “rivale sistemico”, ma sottolinea la necessità di mantenere gli scambi bilaterali e nega qualsiasi intenzione di “impedire il progresso e lo sviluppo economico della Cina”.
Il caso dell’Asml e il piegarsi del governo olandese alle pressioni statunitensi, tuttavia, è un segnale del fatto che avere entrambe le cose non sarà facile. Gli Stati Uniti continuano a sollecitare gli alleati europei e asiatici a limitare gli investimenti in Cina. Se le tensioni tra Washington e Pechino dovessero intensificarsi, gli altri paesi sarebbero costretti ad allearsi con una delle due potenze e a bloccare il commercio, gli investimenti e il trasferimento di tecnologie con l’altra.
Certamente una guerra con Taiwan avrebbe questo effetto, con implicazioni devastanti non solo per la globalizzazione. Ma possiamo anche immaginare conflitti più limitati – accuse di spionaggio, lo sviluppo di strutture di addestramento militare cinesi a Cuba – che, seppur meno drammatici, spingerebbero nella stessa direzione, minando alla base la globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta.
I paesi hanno dimostrato di saper affrontare crisi finanziarie, emergenze sanitarie ed eruzioni populiste. Hanno dimostrato di saper mettere un freno alla globalizzazione finanziaria lasciata a briglia sciolta. Hanno immunizzato le loro popolazioni – economicamente e politicamente, oltre che dal punto di vista sanitario – da un virus che si è diffuso grazie all’interdipendenza globale. Hanno saputo riconoscere, sia pure in ritardo, che la globalizzazione non è una marea che solleva automaticamente tutte le barche e che la sua sostenibilità si fonda su una serie di misure in grado di risarcire gli sconfitti. Quello che non hanno ancora dimostrato è che la globalizzazione sia compatibile con la rivalità geopolitica e il rischio geostrategico. Gli Stati Uniti e la Cina, in particolare, dovranno elaborare una strategia per disinnescare questo rischio. ◆ fas
Barry Eichengreen è un economista statunitense. Insegna economia e scienze politiche all’Università della California, Berkeley, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro è The populist temptation (Oxford 2023).
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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati