Per le tre amiche si avvicina il capolinea. Dopo aver trascorso rispettivamente dieci, quindici e ventisei anni di lavoro nella fabbrica di sedili per auto, i gesti all’uscita dall’edificio sono sempre gli stessi: una rapida pausa sigaretta davanti alla guardiola, la voce che si abbassa quando alle spalle arriva il capo, la condivisione dell’auto per tornare a casa. Tra pochi mesi tutto questo finirà. La fabbrica della Adient, il gruppo statunitense per cui lavorano, chiuderà definitivamente “alla fine di maggio” secondo la direzione, “nel terzo trimestre” del 2025 secondo l’azienda. “Ci dicono che costiamo troppo”, sostiene una di loro, amareggiata, osservando che il suo stipendio è di appena 25mila corone ceche al mese (mille euro).

In totale spariranno 410 posti di lavoro. Un duro colpo per Česká Lípa, una cittadina di 37mila abitanti nel nord della Repubblica Ceca, vicino ai confini con la Germania e la Polonia. Non è un caso isolato: un’altra fabbrica specializzata nella produzione di interni per automobili ha appena tagliato quattrocento posti di lavoro. “Comincia a sembrare proprio una crisi”, dice Jitka Volfova, sindaca della cittadina. La Adient sta chiudendo anche un secondo stabilimento in una città a 25 chilometri di distanza, con la perdita di altri 690 posti di lavoro.

La Repubblica Ceca, con i suoi undici milioni di abitanti, risente della crisi economica tedesca. La Germania ha vissuto due anni di recessione, nel 2023 e nel 2024, e il 2025 si preannuncia altrettanto deludente. Per l’Europa centrale, che ha costruito la sua crescita sulla manodopera a basso costo per il mercato tedesco, il contraccolpo è inevitabile. Soprattutto nella Repubblica Ceca, dove il 30 per cento delle esportazioni è destinato alla Germania. Dopo aver registrato tassi di crescita fra il 3 e il 5 per cento fino alla pandemia di covid-19, il paese ha subìto un brusco rallentamento: -0,4 per cento nel 2023, 1 per cento nel 2024. Oggi è ovviamente molto più ricco: il suo pil è pari al 92 per cento della media dell’Unione europea, leggermente più alto di quello della Spagna. Ma secondo David Marek, capo economista dell’azienda di consulenza Deloitte, è necessario rivedere il modello economico: “Siamo profondamente legati alla filiera produttiva tedesca, dipendiamo dalla capacità delle aziende tedesche di rispondere alla crisi, quindi in realtà la soluzione non dipende da noi”. L’industria automobilistica, che rappresenta il 9 per cento dell’economia ceca, è tra i settori più colpiti.

Josef Středula, presidente della Confederazione ceco-morava dei sindacati (Cmkos), il principale sindacato del paese, denuncia i “465 miliardi di corone ceche (18,5 miliardi di euro) in dividendi” che le aziende straniere hanno fatto uscire dalla Repubblica Ceca nel 2022. Un segnale preoccupante per il futuro è il fatto che nel paese non c’è nessuna grande fabbrica per la costruzione di batterie per auto. La Volkswagen, che voleva aprirne una a Plzen, alla fine ha rinunciato.

Nelle loro sfumature

L’intera Europa centrale subisce gli effetti della stagnazione tedesca: anche l’Ungheria e la Romania sono state colpite duramente; in Slovacchia, nonostante una crescita vicino al 2 per cento nel 2024, la produzione di auto è “diminuita dell’8 per cento”, sottolinea Marco Trisciuzzi della Camera di commercio tedesco-slovacca. Le difficoltà della regione vanno però analizzate nelle loro sfumature. L’economia ceca è in difficoltà, ma non in condizioni disastrose. La disoccupazione è ai minimi storici, al 2,7 per cento.

A Česká Lípa la carenza di manodopera ha spinto le aziende a far arrivare immigrati dalla Mongolia, che qui hanno formato una comunità di 2.200 persone. A Mladá Boleslav, un’ora d’auto più a sud, le enormi fabbriche della Skoda funzionano a pieno regime. Il marchio ceco, comprato dalla Volkswagen nel 1991, è uno dei pochi in buona salute del gruppo tedesco. Nel 2024 ha prodotto 925mila veicoli, con un aumento del 4,2 per cento. Di questi, 575mila nelle fabbriche di questa città, dove la Skoda è nata nel 1895.

Il rallentamento economico della Repubblica Ceca, tuttavia, non è dovuto solo alla Germania. La fabbrica di vetro soffiato della Jílek Glassworks è stata inaugurata nel 1905 a Česká Lípa. Sembra rimasta ferma a diversi decenni fa: i soffiatori di vetro si aggirano in pantaloncini e sandali, facendo roteare senza troppe protezioni il materiale fuso che esce da una fornace a una temperatura di 1.400 gradi. Alcuni hanno la sigaretta in bocca. I cento dipendenti della fabbrica sono fortunati a essere scampati alla recessione. “Ma tre vetrerie della regione hanno chiuso negli ultimi due anni”, dice Stanislava Koziskova, una dirigente. Lei stessa lavorava per la Egermann, che è fallita: “In due mesi la nostra bolletta del gas è passata da 0,6 milioni di corone a due milioni di corone, per poi raddoppiare a quattro milioni due mesi dopo. È stata una follia. Non sapevamo cosa fare”.

Non è possibile interrompere il funzionamento della fornace di un vetraio, perché c’è il rischio che si rompa. L’unica soluzione, paradossalmente, era assumere personale, accelerare i ritmi di produzione e trovare nuovi sbocchi. La Jílek è riuscita a farlo grazie alla sua creatività. Gli artisti arrivano qui per commissionare pezzi unici. Una delle sue creazioni, un vetro rosa confetto, è stata usata nel film statunitense Barbie, del 2023. Il suo esempio, però, è l’eccezione che conferma la regola: altri vetrai sono in difficoltà.

Anche la popolazione ha sofferto per la crisi energetica. L’inflazione ha raggiunto livelli record, con un aumento totale dei prezzi del 36 per cento dal 2020. I salari reali (tenendo conto dell’adeguamento in base all’inflazione) sono ancora inferiori del 5 per cento ai livelli del 2019, mentre sono aumentati dell’11 per cento in Polonia e del 14 per cento in Ungheria. Nel tentativo di limitare il deficit, il governo ha abolito i contributi per il pagamento delle bollette energetiche a partire dal 2023.

Data la situazione, probabilmente le elezioni legislative di ottobre puniranno il governo. Andrej Babiš, un imprenditore miliardario che ha fatto fortuna nel settore agroalimentare ed è stato primo ministro dal 2017 al 2021, è il favorito. “È un populista che aspetta di capire le preferenze dell’opinione pubblica prima di presentare il suo programma”, spiega Oldřich Sklenář dell’ong praghese Associazione per gli affari internazionali. Le crepe economiche e la brutta aria che tira dalla Germania potrebbero aiutarlo. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1607 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati