Quando fa buio, per le strade di Atalaia do Norte, nello stato brasiliano di Amazonas, si aggirano delle ombre. Sembrano fantasmi che camminano rapidi e sicuri, di solito indossando larghi vestiti da trekking. Sono bruni, biondi, di carnagione chiara o bruciati dal sole, il sorriso tirato e un leggero accento straniero. Ma soprattutto hanno sempre una Bibbia in tasca o in mano. La loro destinazione? Le chiese evangeliche di questa città di ventimila abitanti. Negli edifici di mattoni tutti uguali, illuminati da luci al neon, ci sono soprattutto nativi. Donne e uomini, spesso giovani e timidi, che tengono in mano delle copie consumate del Vecchio testamento. I pastori gli offrono bibite, caramelle al cioccolato, fette di dolci al mais, e un sermone.
“Siete consapevoli della vostra identità e vi dite: ‘Io sono matis, sono marubo’. Ma ognuno qui ha il diritto di scegliere la sua esistenza. Credere in Dio è un bene per il vostro popolo, è un bene per voi”, afferma un sacerdote brasiliano nella chiesa battista di Atalaia.
Poi è il turno di un pastore con la pelle scura, peruviano: “Secondo alcuni Dio è solo per i bianchi, ma non è vero. Dio è anche per gli indigeni”. I fedeli annuiscono con fervore, a occhi chiusi.
La stessa scena si ripete in altre chiese del quartiere. Nel tempio presbiteriano a poca distanza il pastore Davi, coreano, canta un gospel in inglese e parla in portoghese: “Molti di voi vengono da lontano, alcuni sono arrivati in canoa dal loro villaggio. Ma per tutti Gesù è la vita”. In fondo alla sala un gruppo di donne sulla trentina, probabilmente originarie degli Stati Uniti, applaude.
Perché queste persone si trovano in una città ai confini dell’Amazzonia occidentale, alla triplice frontiera tra Brasile, Colombia e Perù? In apparenza Atalaia do Norte non è uno snodo internazionale. È accessibile per lo più in barca ed è l’ultima tappa urbana prima dell’immensa terra indigena della valle del Javari, una regione che in Brasile è sinonimo di isolamento. Grande come l’Austria, è la seconda terra indigena più estesa del paese e ha un ruolo particolare: la valle del Javari ospita la più importante concentrazione di popoli incontattati del mondo. Una quindicina di gruppi di trecento o cinquecento persone nascosti nel fitto della giungla, senza alcun contatto con il mondo esterno.
Atalaia do Norte si scopre prima di tutto attraverso il fiume Javari, che la sfiora. L’accoglienza non è idilliaca: la banchina è un muro di fango crollato e bisogna saltare da una piroga all’altra per raggiungere la terraferma. Qui sono accampate decine di nativi stremati, in cerca di benzina per poter tornare nei loro villaggi. La pesca e l’igiene personale si svolgono nello stesso fiume putrido dove si riversano le fogne locali.
Ma una volta superato il primo impatto, si scopre un’altra Atalaia: alberi tropicali e casette costruite su palafitte decorate e verniciate con cura, affreschi e statue di delfini, tartarughe o aironi che celebrano la vicina foresta. Nelle piazzette, al tramonto gli abitanti gustano l’aperitivo amazzonico: filetti di pesce, tambaqui o pirarucu, accompagnati da manioca e sorbetti di frutta, bacuri o cupuaçu.
L’attività economica si concentra la mattina intorno al mercato del pesce, un grande capannone con i muri gialli. Pescatori e famiglie di caboclo (così si chiamavano le persone figlie di un colonizzatore e di una persona nativa, oggi il termine indica chi ha una discendenza mista) fanno colazione in silenzio. In città girano curiosi personaggi che sembrano usciti da un’altra epoca: cappello sporco, barba lunga, volto bruciato dal sole, petto villoso, camicia sbrindellata e stivaletti. E di notte ci sono i pastori.
Atalaia è piena di chiese. Oltre a quella battista e presbiteriana, ci sono quelle del Settimo giorno, la metodista, la battista fondamentalista, l’Assemblea di dio, quella del Dio vivente, i testimoni di Geova e l’Ordine della santa croce. Un vero e proprio feudo neopentecostale in mezzo alla foresta.
Atalaia do Norte serve da base internazionale ai missionari cristiani in Amazzonia. Il loro obiettivo è “convertire i villaggi indigeni della valle del Javari, ma soprattutto evangelizzare le popolazioni isolate e incontattate”, dice un conoscitore della regione, che per ragioni di sicurezza preferisce rimanere anonimo. Ai missionari interessa soprattutto il gruppo dei korubo, presenti probabilmente nella parte nordorientale del territorio. “I missionari vogliono a tutti i costi entrare in contatto con loro”, spiega.
Una tentazione
I tentativi d’invasione della valle del Javari non si contano più. I missionari arrivano di solito in idrovolante, l’unico mezzo per raggiungere le zone più inaccessibili, organizzati in vere e proprie spedizioni con una guida, un traduttore, amache e fornelli da campo in cerca degli “ultimi pagani”. Un’attività assolutamente vietata dalla Fundação nacional do índio (Funai), incaricata di proteggere le terre indigene in Brasile. Per le popolazioni isolate, che hanno un sistema immunitario molto vulnerabile, entrare in contatto con persone provenienti dall’esterno è molto rischioso.
I metodi sono simili a quelli della colonizzazione europea nel sedicesimo secolo. “Per prima cosa convertono gli indigeni delle città e dei villaggi più esposti”, spiega Kora, leader carismatico dei kanamari, uno dei principali popoli non isolati della valle del Javari. Ad Atalaia do Norte vivono centinaia di giovani arrivati per studiare alle superiori. “Sono soli, disorientati, lontani dalle loro famiglie e molto poveri”, dice Kora. “Molti cominciano a consumare sostanze stupefacenti o a bere. Sono tutte prede facili per i pastori”.
Una volta convertiti, i giovani marubo e mayoruna sono rimandati nei loro villaggi per predicare la parola di dio e, se possibile, per costruire una chiesa che poi servirà da base per i missionari stranieri, pronti a sbarcare con medicinali, provviste alimentari, utensili, benzina, e a scavare pozzi e aprire scuole. Per i capi villaggio è difficile resistere alla tentazione. Il modo in cui operano i missionari, collaudato per cinque secoli, è molto efficace. “Alcuni capi pensano che i pastori li renderanno ricchi, porteranno petrolio e cure mediche. Ma i missionari sono pericolosi e distruggono la nostra cultura”, dice Kora, che rifiuta qualunque presenza evangelica nel suo villaggio, São Luis. “Finché sarò vivo, qui non arriveranno mai. Se uno dei loro aerei atterra da queste parti, lo blocco e lo confisco”, assicura
Dopo essersi stabiliti nei villaggi può capitare che i missionari vietino i riti tradizionali o le lingue native. Per i kanamari è inconcepibile: “I disegni sul corpo, la musica e le danze sono momenti importanti che scandiscono e regolano la vita del villaggio durante l’anno”, spiega Kora.
La sera a São Luis ogni tanto si sentono le loro musiche. Sul terrapieno centrale i guerrieri kanamari avanzano in fila indiana, a torso nudo, con grossi bastoni in mano e guidati dal capo. Davanti a loro le donne, allineate e con il volto dipinto, cantano e chiamano i loro uomini prima di raggiungerli in un grande circolo e di offrirgli delle tazze di caiçuma, una bevanda fermentata a base di manioca.
Lo Hai hai è uno dei rituali più importanti dei kanamari, un popolo che afferma di discendere dal giaguaro maculato Pidah Nhanim e da un mitico antenato umano, Tamakori. In questa cosmogonia complessa l’esistenza è definita dalla volontà dei kohana, sciamani celesti, che vanno e vengono dal cielo alla Terra aiutandosi con le nuvole, i lampi e gli arcobaleni. Per riceverli degnamente bisogna cantare e danzare, con il corpo dipinto e a volte interamente ricoperto di foglie di palma.
Raccolta fondi
Lo sconvolgimento provocato dall’arrivo dei missionari non è niente rispetto alla sorte che aspetta i popoli originari non contattati. “I nativi sopravvivono raramente al trauma dell’incontro con la società industriale dei bianchi e alle loro malattie. Sono disorientati, spesso cominciano a bere, abbandonano la loro cultura e finiscono per vivere ai margini delle città”, spiega Kora.
Chi sono questi missionari stranieri, spettri che si aggirano nella foresta vergine? “Dei pazzi invasati”, esclama Marcos Pepe, 43 anni. Quest’uomo minuto, con i capelli lunghi e un paio di blue jeans, conosce bene l’argomento: è nato nella valle del Javari, viene dal popolo mayoruna ed è lui stesso un pastore di professione. Ma lavora con la Funai e rifiuta i metodi dei bianchi. “Aiuto i nativi di Atalaia o degli altri villaggi a conoscere la parola di Dio. Ma non obbligo e non compro nessuno. Non entro in contatto con i nativi isolati e soprattutto non ostacolo la loro cultura tradizionale. Anzi, la incoraggio”, dice Pepe. Poi comincia a cantare in mayoruna. “Noi siamo questo e questi sono i nostri canti. È bello. È Dio”, afferma. Secondo lui i missionari sono soprattutto statunitensi bianchi che arrivano in coppia e si circondano di pastori indigeni convertiti.
“Sono preparati, furbi, intelligenti, studiano la sociologia dei gruppi che vogliono convertire, parlano le loro lingue meglio degli etnologi. Sono disposti a vivere anni nella foresta e questo impressiona molto i nativi”, spiega la fonte che conosce la regione.
Tra i missionari che navigano lungo il fiume Javari uno in particolare si è fatto conoscere, Andrew (o André) Tonkin. È un americano che dovrebbe avere sui 40 anni e probabilmente viene dal North Carolina. Sulle poche foto che circolano online ha gli occhiali, la barba curata e il sorriso gentile. Ma secondo i difensori dei popoli nativi, è uno dei missionari cristiani più pericolosi dell’Amazzonia. In diverse occasioni Tonkin, che si muove nella regione da più di dieci anni, avrebbe condotto delle spedizioni nella foresta per avvicinare i korubo, in particolare vicino al fiume Lambança. Denunciato dalle organizzazioni per la difesa delle popolazioni autoctone e ricercato dalla giustizia, Tonkin non può più entrare nella terra indigena della valle del Javari. Nel 2020 ha pubblicato sui social network delle foto dall’Iraq, anche se qualcuno sostiene che si trovi sempre nella regione amazzonica.
Nelle rare interviste che ha concesso Tonkin si è definito un “missionario indipendente”, ma non agisce da solo. Secondo le informazioni raccolte da Le Monde, ad Atalaia avrebbe ricevuto l’aiuto di pastori nativi brasiliani, peruviani e statunitensi. Il sito Repórter Brasil ha anche rivelato di averlo identificato su numerose foto e video apparse nella pagina Facebook dell’organizzazione missionaria Frontier international.
Frontier non è l’unica associazione presente in Amazzonia. Nella regione ci sono organizzazioni come Finishing the talk, Joshua project, Asas do socorro. La più ricca rimane Ethnos360, nota soprattutto con il suo vecchio nome di New tribes mission, missione nuove tribù. Fondata nel 1942, è presente in 35 paesi e ha sede in Florida, negli Stati Uniti. Nel 2020 per 650mila euro ha comprato un elicottero R66 per “sviluppare le sue attività missionarie” nella valle del Javari.
“A volte le risorse di queste organizzazioni sono superiori a quelle della Funai”, dice la fonte che conosce la regione. Sono strutture ben organizzate che online mostrano i “successi” dei loro pastori-avventurieri. “È una follia che ubbidisce a una logica commerciale”, aggiunge Marco Pepe. “Per queste associazioni si tratta anche di alimentare tra gli indigeni il mito del coraggioso missionario bianco e, attraverso la propaganda, di giustificare la raccolta di fondi tra i fedeli”.
Ad Atalaia do Norte la maggior parte dei sacerdoti si tiene lontano dai giornalisti
Se i missionari amazzonici sono così numerosi, la responsabilità è anche di Jair Bolsonaro. Cattolico di nascita, il presidente del Brasile ha fatto della comunità evangelica il suo principale serbatoio elettorale e da quando è al potere si è circondato di pastori neopentecostali. La più influente è senza dubbio Damares Alves, 57 anni, ex avvocata e assistente parlamentare, attuale ministra per la donna, la famiglia e i diritti umani. Questa politica esaltata, che afferma di aver incontrato Gesù su un albero di guaiava, ha un legame stretto con i pentecostali dell’Amazzonia. Nel 2006 aveva partecipato alla fondazione del movimento Atini, un’associazione sospettata di rapimenti e sequestri di bambini nativi presi con il pretesto di salvarli dai tradizionali rituali d’infanticidio.
Incoraggiati dalla sua presenza gli evangelici stanno prendendo il controllo della Funai. Nel 2020 il governo aveva nominato Ricardo Lopes Dias nel ruolo molto delicato di capo del coordinamento generale degli indigeni isolati e dei contatti recenti (Cgiirc), un ufficio della fondazione. Lopes Dias è un missionario molto noto ad Atalaia e ha lavorato più di dieci anni per Ethnos360, in particolare nella valle del Javari. Contro la sua nomina è stato presentato un ricorso e nel novembre 2020 è stato destituito dall’incarico.
Ma i popoli incontattati non possono stare tranquilli. A Brasília, un progetto di legge molto contestato e attualmente in discussione al congresso, il cosiddetto Pl 490, permetterebbe tra le altre cose alle autorità nazionali o municipali di entrare in contatto con i popoli isolati nell’ambito di una non specificata “azione statale di pubblica utilità”. Un’incursione senza precedenti sostenuta dalle lobby agrarie ed evangeliche.
Litigi in famiglia
Ad Atalaia la maggior parte dei sacerdoti si tiene lontano dai mezzi d’informazione e nessuno parla quando i giornalisti si avvicinano. Dopo diversi tentativi falliti in varie chiese, uno di loro ha finalmente accettato di scambiare qualche parola con Le Monde, uno statunitense che si chiama Josiah Mcintyre. Ci ha ricevuto sulla soglia della sua casa, una villetta bianca lontana dal centro e circondata da alberi tropicali. Nella via la casa è una delle poche ad avere un alto muro di cinta. “Come mi ha trovato?”, chiede con diffidenza.
Mcintyre ha 37 anni. Alto, muscoloso – in città lo chiamano grandão o fortão, ragazzo grande e forte –, ha i capelli castani e indossa una canottiera rosa con la scritta Alabama, lo stato dov’è nato, e un cappellino con la visiera al contrario. È integrato bene nella società locale, parla portoghese quasi senza accento e saluta tutti i suoi vicini sorridendo. Ufficialmente è impegnato nella lotta contro la povertà per alcune organizzazioni caritatevoli. In realtà si sospetta che sia uno dei compagni di Andrew Tonkin nelle sue spedizioni nella valle del Javari.
“Sono tutte bugie”, afferma Mcintyre. “Non sono né pastore né missionario. Dio mi ha mandato qui sette o otto anni fa. Non ho soldi e non ho uno stipendio fisso, e non faccio parte di nessuna chiesa. Non ho mai cercato di entrare in un villaggio indigeno. Non so neanche dove sono. Voi lo sapete? Cerco solo di aiutare i giovani di Atalaia che sono in difficoltà. Hanno bisogno di Gesù e di preghiere. Anche voi avete un cuore, Gesù vi ama. Non lo dimenticate”. E richiude la porta.
Protetto dalle chiese locali e dai poteri pubblici, l’uomo sa di essere al sicuro. La crisi legata al covid-19 e lo smantellamento di fatto della Funai da parte del governo hanno aumentato il margine di manovra dei missionari.
◆ Secondo il censimento del 2010 realizzato dall’Istituto brasiliano di geografia e statistica (Ibge), in Brasile ci sono 817.963 persone indigene e 305 etnie differenti. Le lingue registrate sono 274. I popoli indigeni isolati non hanno relazioni e contatti permanenti con il resto della popolazione nazionale, neanche con gli altri popoli nativi. L’articolo 231 della costituzione brasiliana stabilisce il diritto dei popoli nativi a conservare la propria cultura e organizzazione sociale. Anche i popoli isolati o di recente contatto possono preservare le loro abitudini e tradizioni, e gli organi nazionali competenti dovrebbero far sì che la loro volontà di rimanere isolati sia rispettata. Finora ci sono 114 testimonianze sicure della presenza di indigeni incontattati nella regione amazzonica. Funai, Ibge
“Oggi predicano liberamente contro i vaccini e diffondono notizie false”, dice Kora, del popolo kanamari. Alcuni pastori affermano che nei vaccini ci sia un chip diabolico o una sostanza mortale e in alcuni villaggi molti abitanti hanno rifiutato di farsi vaccinare.
L’influenza dei pastori aumenta e nella valle del Javari le conversioni si moltiplicano. “La maggioranza dei mayoruna, il popolo più numeroso della riserva, è già evangelica e molti leader di altri popoli si sono convertiti”, dice un dirigente di un’ong locale.
Questa situazione crea una spaccatura nel movimento indigeno, con accuse di tradimento tra i diversi popoli locali. “I mayoruna abbandonano la loro cultura e aprono la loro riserva in cambio di qualche centinaio di real”, dice con rabbia João Filho, un funzionario governativo indigeno di 20 anni, che vive a São Luis.
Di fronte all’assalto proveniente dal cielo i kanamari organizzano la resistenza. Ma qualcuno comincia a criticare l’intransigenza del capo Kora. Un giovane nativo di São Luis lo dice apertamente: “Penso che i pastori dovrebbero avere il diritto di venire a vivere da noi. Kora è in gamba, un vero guerriero, difende le nostre terre, ma su questo si sbaglia. Anche noi pecchiamo. Molti nativi bevono, consumano droga, minacciano di suicidarsi. Nella foresta non abbiamo prospettive, non abbiamo futuro. Ci serve qualcosa di più della cultura tradizionale, della caccia e della pesca. Abbiamo bisogno di una parola che ci dia speranza e un po’ di luce”.
Il cambiamento è cominciato. Internet sta progressivamente arrivando anche qui. I matrimoni misti si moltiplicano. Molti giovani sognano di lasciare la foresta, di studiare, di lavorare in città. Come resistere? Aprirsi o chiudersi? Fuggire o scendere a compromessi con la realtà? Di fronte a queste sfide Kora rimane inflessibile: “Litigo con tutti. Bisogna rimanere nel villaggio, conservare la propria cultura, difendere la nostra terra”, dice.
Sua figlia, 17 anni, vive e studia a Manaus. “Le ripeto che deve tornare, che deve sposarsi con una persona della comunità. Ma lei non vuole, mi dice che la scelta è solo sua. Mi parla di amore, e ogni volta litighiamo. Secondo me una delle regole di base per resistere e preservare la nostra terra è non sposarsi con i bianchi”.
Secondo un’analisi del giornale O Globo, la metà dei popoli isolati del Brasile è minacciata dalle incursioni dei missionari. Il processo di colonizzazione e di annientamento delle culture indigene cominciato cinque secoli fa si sta realizzando. Il fenomeno sembra inarrestabile.
All’entrata del porto di Atalaia do Norte c’è una piazza con una grande statua. Anche se rovinata dall’umidità, è il simbolo della città e rappresenta il martirio di san Sebastiano: lo sguardo rivolto al cielo, il torso nudo sanguinante, il corpo crivellato di frecce. “Il sogno dei missionari stranieri”, osserva Marcos Pepe, “è morire così, uccisi nella foresta dai nativi per essere poi celebrati nei secoli come santi e martiri. E per farlo sono disposti a tutto”. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1436 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati