Una sera di inizio marzo del 2024 un pandillero soprannominato El Pinki è rimasto senza marijuana, così ha preso un coltellino ed è uscito per strada a torso nudo nel suo quartiere di Tapachula, una città nel sud del Messico al confine con il Guatemala, pronto a rapinare la prima persona che gli capitasse a tiro. Ha individuato una signora che camminava con la borsa sotto il braccio e il cellulare in mano. Le ha mostrato i suoi tatuaggi e le ha strappato il telefono. Dopo la rapina si è allontanato soddisfatto, pronto a scambiare il bottino con della droga, ma qualche isolato più avanti è stato fermato da alcuni uomini vestiti di nero. Erano i guardiani della notte, un gruppo guidato dal leader del quartiere. “Qui non puoi rubare, stronzo”, ha detto a El Pinki, che poco dopo è stato colpito da uno degli altri uomini con un tubo di ferro. El Pinki si è messo a correre disperato verso la casa del Güero, il capo della sua banda criminale nel quartiere. Ma i guardiani della notte non si sono fermati: sono entrati in casa e hanno continuato a colpire il suo corpo scheletrico. “Non in testa, potremmo finire nei guai”, ha detto il presidente, mentre El Güero assisteva alla scena seduto su una vecchia poltrona sdrucita.

“Lasciatemi, smettetela di picchiarmi, non ruberò più, ve lo giuro”, ha implorato El Pinki.

El Güero l’ha guardato con pietà, ma non è intervenuto. Non gli ha chiesto neanche cosa avesse fatto per trovarsi in quella situazione. I colpi si sono fermati. I guardiani della notte hanno ripreso il cellulare della signora e hanno lanciato a Pinki un ultimo avvertimento: se avesse rubato ancora lo avrebbero ucciso.

Una settimana dopo il pestaggio, alcuni ragazzi stanno davanti a un cumulo di rifiuti fumanti sulle rive del fiume Coatán, a Tapachula. Sono le tre del pomeriggio e il gruppo si ripara dal sole addossandosi a un muro che proietta una piccola ombra. El Güero, un uomo basso dal corpo muscoloso e con la testa rasata, soffia sul fuoco con un lungo tubo di plastica mentre racconta come hanno picchiato El Pinki.

“Non andate in giro a mettervi nei guai, qui le cose sono cambiate, non siete più a casa vostra”, li avverte El Güero. El Pinki lo ascolta seduto sul marciapiede, guardandolo di sbieco con un misto di rabbia e dolore. L’incontro è piuttosto insolito. Fino a poco tempo fa sarebbe stato impossibile: i cinque ragazzi appartengono a due gruppi storicamente nemici – la Ms-13 e il Barrio 18 – che negli ultimi vent’anni hanno causato decine di migliaia di morti in Salvador. Ma ora fanno parte della stessa clica, il nome delle cellule nel gergo delle gang. Oggi a Tapachula sono rimasti i pandilleros senza pandillas, banditi senza bande.

Debolezza

Molti anni fa questa città, tappa importante della principale rotta migratoria verso gli Stati Uniti, faceva parte del territorio controllato dalla Ms-13 fuori del cosiddetto triangolo nord dell’America Centrale (Honduras, El Salvador e Guatemala). A ricordare la presenza delle bande ci sono i graffiti dipinti sui muri di alcuni vecchi edifici. Gli affiliati dell’una cancellano di continuo i simboli dell’altra scrivendoci sopra.

Le cifre ufficiali ribadiscono la debolezza di entrambe: secondo la procura generale dello stato messicano del Chiapas, tra il 1 gennaio 2021 e il 4 ottobre 2022 sono stati arrestati 241 affiliati, ma solo dodici sono stati processati: tre per omicidio, sette per rapina, uno per lesioni e uno per possesso di droga. Tapachula è diventata solo un buon posto dove nascondersi. Il declino delle bande criminali nel Messico meridionale è cominciato nel 2005, quando l’uragano Stan distrusse la rete ferroviaria da cui passavano i migranti a bordo della “bestia”, il treno merci che attraversa il paese da sud a nord. Insieme alla ferrovia hanno perso la loro attività principale: i rapimenti e le estorsioni contro i migranti centroamericani. Ma la Ms-13 è stata colpita ancora più duramente nel marzo 2022, quando il presidente del Salvador Nayib Bukele ha imposto lo stato d’emergenza con un enorme dispiegamento di poliziotti e soldati. Da allora il governo ha usato ventisei volte questo meccanismo straordinario previsto dalla costituzione, che consente di sospendere i diritti dei salvadoregni per trenta giorni.

Dal paese sono fuggiti centinaia di affiliati alle bande criminali. Alcuni sono andati a sud, verso l’Honduras e il Nicaragua, e altri a nord, verso il Guatemala, il Messico e gli Stati Uniti; altri ancora sono scappati in Spagna. Per ricostruire l’esodo di quelli della Ms-13 ne abbiamo intervistati di persona e per telefono più di venti, che hanno trovato rifugio in sei paesi.

Nella loro fuga si sono mimetizzati tra i tanti salvadoregni che da decenni scappano dalla fame o dalla violenza provocata dalle gang. Per farlo gli affiliati hanno superato illegalmente la frontiera; molti si sono rivolti a contatti del loro gruppo criminale in altri paesi lungo il percorso; hanno pagato trafficanti di esseri umani, hanno corrotto i poliziotti e alcuni hanno perfino chiesto asilo in un altro paese, approfittando della corruzione delle istituzioni o di qualche scappatoia legale, a volte dicendo di essere vittime di violenza nel Salvador. Oggi molti degli uomini che erano arrivati a controllare il 90 per cento del paese e la vita di milioni di persone sopravvivono a stento all’estero, in clandestinità e con la paura di essere espulsi.

Sotto gli occhi di tutti

Hueso ha 48 anni e per trenta ha fatto parte dell’Ms-13. Oggi sopravvive con l’aiuto e l’ospitalità di un pastore evangelico e di sua cugina a Rivera Hernández, uno dei quartieri più poveri di San Pedro Sula, in Honduras, roccaforte della sua ex banda criminale. “Non potete aiutarmi a far arrivare qui la mia famiglia?”, chiedeva nel novembre 2023. “Per me la vita in Salvador è finita, non c’è più niente”.

Un altro affiliato, Mache, ci ha detto di essere “orgoglioso” del presidente Bukele, che considera una “leggenda”, ma ha spiegato di essere fuggito dopo che un suo vicino l’ha denunciato su Facebook: “Con la presente sporgiamo denuncia come cittadini e chiediamo alle autorità d’indagare su questo criminale”. È andato a Barcellona, in Spagna, per stare lontano dalle bande.

Quando è cominciato lo stato d’emergenza nel Salvador, Veterano, un affiliato del gruppo dei South Side Locos che aveva avuto un ruolo di spicco nella banda sia nel paese centroamericano sia negli Stati Uniti, era uscito di prigione da 33 giorni. Secondo un rapporto di polizia pubblicato dal gruppo di hacker Guacamaya Leaks e confermato da una testimone della sua stessa gang, Veterano è fuggito in Guatemala. È uno dei pochi individuati in questa inchiesta a essere rimasto nel mondo criminale dopo il collasso della Ms-13 nel Salvador.

Anche i cinque pandilleros incontrati davanti al cumulo di rifiuti sono fuggiti dallo stato d’emergenza. Nel Salvador erano sicari pericolosi che andavano in giro tronfi, con le pistole alla cintura e lo sguardo da delinquenti. Ora sono abbattuti. Non possono nemmeno rubare impunemente il cellulare di una signora.

In Messico la mafia o maña, come chiamano la criminalità, va cercata altrove. “Al vertice ci sono Los Señores, poi ci siamo noi e sotto di noi ci sono le pandillas, che non sono vere e proprie bande. Loro vendono droga. Se li troviamo a rubare o a chiedere soldi non gliela facciamo passare liscia”, dice il presidente del quartiere a capo dei guardiani della notte.

“Los Señores” sono i narcotrafficanti, più precisamente il cartello di Sinaloa, a cui ultimamente si è aggiunto quello di Jalisco Nueva Generación. I due gruppi si contendono il controllo dello stato di confine del Chiapas.

Un soldato a Soyapango, El Salvador, 5 dicembre 2022 (Marvin Recinos, Afp/Getty)

“È il cartello a controllare tutto: il territorio, le istituzioni, la politica, le rotte del traffico di droga e di migranti”, spiega Bigote, un poliziotto che lavora da quasi dieci anni nella regione e che ci ha chiesto di non pubblicare il suo nome. “L’arrivo dei pandilleros in fuga dal Salvador non ha cambiato la mappa criminale di Tapachula. È solo cresciuto lo spaccio di droga. I salvadoregni arrivano e si mettono a vendere crack, hashish o cocaina. Possono farlo senza problemi, a patto di comprarla dal cartello”.

Mentre siamo con i salvadoregni davanti al cumulo di rifiuti, una trentina di persone vengono a comprare piccole dosi di droga in cambio di cinquanta o cento pesos (tre o sei dollari). Lo fanno sotto gli occhi di tutti e in pieno giorno. Un’auto di pattuglia con due agenti della polizia municipale passa davanti agli spacciatori. Un poliziotto gira la testa e chiude gli occhi per fingere di non vedere.

L’esodo

Lo stato d’emergenza è stato approvato nelle prime ore del 27 marzo 2022, dopo tre giorni in cui le bande criminali avevano ucciso 87 persone. Quel massacro, il più grande dagli accordi di pace del 1992 che avevano messo fine alla guerra civile, aveva una spiegazione: era saltato il patto segreto tra il governo Bukele e le bande criminali di due anni e mezzo prima.

Nei primi sette giorni dello stato d’emergenza le autorità hanno arrestato 4.357 presunti affiliati a gruppi criminali. Nel giro di un mese la cifra è salita a 34mila. Due anni dopo ci sono più di ottantamila detenuti. Secondo Bukele, nel 2020 gli affiliati alle bande criminali erano 60mila, compresi i 17mila già in carcere quando è arrivato al potere. Durante lo stato d’emergenza gli arresti sono stati il doppio dei criminali teoricamente liberi e, anche se le autorità hanno inizialmente negato di aver arrestato degli innocenti, almeno settemila persone sono state rilasciate per mancanza di prove.

S. non ha aspettato di vedere cosa sarebbe successo. È scappato la sera stessa del 27 marzo. Da un anno e mezzo aveva l’obbligo di firma al tribunale di San Miguel, una città nell’est del Salvador, perché era stato coinvolto in un processo contro la Ms-13, accusata di aver ucciso ed estorto denaro per anni nella zona. All’epoca S. si era lasciato alle spalle la vita da criminale ed era diventato un pastore evangelico. Indossava camicie a maniche lunghe e pantaloni ben stirati, ma il suo passato poteva metterlo nei guai, e per le autorità era ancora un criminale. Quando è uscito dal tribunale, S. ha trovato sul telefono molte chiamate perse e messaggi della moglie. Si è subito preoccupato. “Pensavo che avessero ammazzato qualcuno”, ricorda. Ma i messaggi dicevano altro: “Hanno dichiarato lo stato d’emergenza. I soldati e la polizia stanno portando via tutti e sono già venuti a chiedere di te”.

S. sapeva di non poter più tornare a casa. Ha chiamato un tassista di fiducia e l’ha convinto a portarlo fuori città, per nascondersi. Era mezzogiorno. Ha viaggiato passando da un’auto all’altra e la notte è riuscito ad attraversare illegalmente il confine per entrare in Guatemala, con l’aiuto dei suoi vecchi amici della gang che vivevano in quel paese.

Migranti diretti negli Stati Uniti sul treno noto come “la bestia”. Messico, 24 aprile 2024 (Herika Martinez, Afp/Getty)

L’uomo, che ha 42 anni, siede a un tavolo del ristorante Pollo Campero di Tapachula, a quasi 600 chilometri da quella che un tempo era la sua casa in Salvador. Con lui ci sono la moglie e i due figli che pochi giorni dopo la fuga l’hanno raggiunto in Guatemala, anche loro aiutati dalla gang. Da allora tutta la famiglia si nasconde qui e S. cerca di passare inosservato. Hanno fondato una minuscola chiesa evangelica in una baracca di lamiere e pali di legno nel cortile vuoto di una casa, messa a disposizione da un abitante del posto. È uno spazio aperto di circa sette metri per tre, dove non soffia un alito di vento e il caldo è opprimente.

Un pomeriggio dell’inizio di marzo del 2024 S. predica in piedi davanti alla sua minuscola congregazione. Ad ascoltarlo ci sono sette persone, tra cui sua moglie, che ha 25 anni.

Tra i fedeli ci sono altri due ex affiliati di bande criminali scappati dal Salvador. Entrambi sono tatuati, il loro sguardo ha ancora un’aria minacciosa. Quando gli chiediamo della loro vita fanno finta di non sentire. Non sono riusciti a scrollarsi di dosso l’immaginario della loro organizzazione, la banda che un tempo chiamavano “La bestia”.

Entrambi ne sono usciti per entrare nel mondo evangelico: per molti affiliati era ed è tuttora un modo utile per non attirare l’attenzione. La potente MS-13 e la cellula dei Sailor Locos Salvatrucha, a cui appartenevano, sono ormai sconfitte. In passato si poteva lasciare la MS-13 solo con il permesso dei capi. Chi si allontanava senza autorizzazione rischiava di essere ucciso. Né S. né gli altri due criminali hanno dovuto chiedere il permesso a qualcuno, per un semplice motivo: non c’è più nessuno a cui chiederlo.

Nel Salvador le gang non sono scomparse del tutto, ma nelle strade dove un tempo era impossibile camminare senza essere fermati da un pandillero ora non se ne vedono più: la maggior parte è in prigione, è fuggita o ci ha provato, come un uomo che è stato arrestato mentre provava a passare il confine con il Guatemala nascosto in una bara trasportata da un’auto privata. Quelli che rimangono in libertà dentro i confini salvadoregni – circa 17.500, secondo il governo – si nascondono sulle montagne, in grotte scavate nel terreno o tra le pareti di case isolate.

Mota è uno di quelli che sono riusciti a scappare. Nell’ottobre 2023, nascosto da qualche parte a San Salvador, ci ha raccontato la fine della Ms-13 e di come lui fosse consumato dalla paura di essere arrestato e di passare il resto della vita in prigione. Dopo l’inizio dello stato d’emergenza era uscito di casa solo sei volte, per andare a lavorare e racimolare qualche dollaro per sopravvivere. Le sue esperienze lavorative consistevano nell’uccidere, vendere droga, rubare pezzi di ricambio per auto e guidare un taxi.

Non ha abbastanza soldi per pagare un trafficante di essere umani e fuggire dal Salvador. E oggi è rassegnato. Dice che la sua banda si è disgregata e non è più operativa: “Penso che tutto il gruppo sia praticamente in esilio”.

Diablo non concepisce la sua vita senza la Ms-13. Sta per compiere quarant’anni e racconta di esserci entrato quando ne aveva 13. “Per colpa della Ms-13 ho vissuto tutto questo e per quella stessa follia potrei morire”, ci ha detto al telefono all’inizio del gennaio 2024.

“La prima cosa emozionante della mia vita è stata quando i capi mi hanno affidato un incarico. Stavo con loro già da un po’. Un giorno mi hanno detto che dovevo sparare a qualcuno del Barrio 18. Poi sono finito in prigione e sono stato in vari centri di reinserimento, ma il mio attaccamento alla banda si è rafforzato”, ricorda con nostalgia.

A 18 anni, dopo essere passato da tre carceri minorili nel Salvador e aver guadagnato un certo prestigio nella sua banda, Diablo è emigrato negli Stati Uniti, e anche lì è entrato nel mondo criminale.

Tornato nel Salvador, è diventato uno dei principali leader della sua banda, ma pochi mesi prima dell’inizio dello stato d’emergenza imposto da Bukele è scappato in Nicaragua. È rimasto nascosto lì per quasi un anno.

“Mi sono messo a predicare. Ho cercato di allontanarmi il più possibile da quel mondo”.

Poi nel marzo 2022, quando si è reso conto delle conseguenze dello stato d’emergenza, ha avuto paura: “Il Nicaragua era troppo vicino al Salvador. Potevano prendermi in qualsiasi momento e rispedirmi a casa. Per questo ho deciso di allontanarmi il più possibile”.

Per molti criminali il mondo evangelico è utile per non attirare l’attenzione

Nel giugno 2023 ha messo insieme mille dollari ed è fuggito verso nord. Durante il tragitto si è fermato qualche settimana a Tapachula, dove è entrato in contatto con alcuni affiliati della Ms-13. Ma, assicura, senza commettere reati.

“Poi sono arrivato a Mexicali (nello stato della Baja California, al confine con gli Stati Uniti). Ci sono rimasto per qualche giorno e quando ho avuto i soldi sufficienti mi sono buttato oltre il muro. Sai quanto è difficile migrare sapendo che dietro di te c’è un mostro che non si limita ad arrestare i criminali, ma ti dà la caccia per fare bella figura?”.

Ora Diablo vive in clandestinità in Colorado, negli Stati Uniti, a casa di un amico, anche lui emigrato anni fa da San Miguel, nel Salvador.

“Mi porta da mangiare quando va a lavorare, ma io non esco. È come se fossi un prigioniero, anche se in una gabbia dorata”, dice. Poche settimane dopo essere arrivato negli Stati Uniti Diablo aveva cominciato a lavorare per un’azienda edile, ma si era licenziato quasi subito.

“C’erano altri migranti. Se sei salvadoregno riconosci subito un tuo connazionale. E lì c’erano dei salvadoregni normali, che non avevano mai fatto parte di una banda e hanno cominciato a guardarmi male e a parlare di me. ‘Dicono che Bukele sta mettendo in prigione tutti i delinquenti, quei figli di puttana non usciranno mai più’, dicevano a voce alta, gridando per farsi sentire. Me ne sono andato e non sono più tornato”.

Ora La bestia non si occupa più di lui. Diablo è rimasto solo.

Quelli di prima

Seduti davanti al falò di rifiuti a Tapachula, gli affiliati della Ms-13 e del Barrio 18 fuggiti dal Salvador fanno il punto su cosa resta delle loro organizzazioni criminali.

“Quelli del mio gruppo sono stati tutti arrestati”, dice uno di loro, che ha dei tatuaggi della Ms-13.

“Alcuni della mia zona sono riusciti a scappare, ma non ne so più nulla”, racconta un altro.

“Un mio amico è venuto a morire qui. Ha avuto una tresca con la moglie di un narcotrafficante e l’hanno ucciso”, dice un altro.

“Del mio gruppo sono riuscito ad andarmene solo io”, ammette un altro.

Verso sera la spazzatura che alimenta il falò sta per finire. Uno degli affiliati prepara una canna. Il sole tramonta sul quartiere e tutti tornano a casa. Rimane solo El Güero, seduto sul bordo del marciapiede. Ascolta una canzone del rapper venezuelano Canserbero da un piccolo altoparlante, mette da parte la sua pistola 9 millimetri e canta mentre la notte cala sulla città. Prima di salutarci, dice: “È stata una follia. Un sacco di potere, armi, droga. Tutto quello che potete immaginare, ma è stato come un sogno. Siamo passati da essere ragazzi che non facevano paura a nessuno a essere i più temuti di tutti. Ora siamo tornati come prima, solo che siamo vecchi”. ◆ fr

Bryan Avelar è un giornalista salvadoregno esperto di violenza, migrazione e criminalità organizzata. Carlos García è un giornalista messicano che da più di dieci anni studia come sono cambiate le bande criminali salvadoregne in Messico, Honduras, Guatemala e Stati Uniti.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati