Sessantasei milioni di anni fa un’enorme roccia spaziale si scontrò con la Terra trasformandola in un inferno fumante. Questo cataclisma durato millenni decretò la fine dell’era dei dinosauri, lasciando spazio a un piccolo numero di sopravvissuti, un gruppo di creature pelose a sangue caldo che chiamiamo mammiferi. Le estinzioni catastrofiche che colpirono il pianeta lasciarono uno spazio vuoto che i mammiferi sopravvissuti avrebbero sfruttato.
Ma un altro evento molto distante nel tempo ebbe un impatto importante sui mammiferi, anche se non ha lasciato traccia nei fossili. Accadde quando un piccolo mammifero contrasse un virus. Rispetto all’apocalisse circostante, un essere simile a un toporagno con il raffreddore sembrerebbe un evento piuttosto insignificante. Ma a causa di quel virus sarebbe successo qualcosa di strano che avrebbe cambiato la vita sulla Terra quasi quanto l’asteroide che aveva eliminato i dinosauri.
Questo mammifero era stato infettato da un retrovirus, così chiamato perché usa un enzima per trasformare il suo rna in dna (l’opposto del solito passaggio da dna a rna). Come tutti i virus, per creare copie di se stesso un retrovirus dipende dalle cellule del suo ospite. Ma, a differenza di altri virus, deve farsi strada nel genoma di una cellula ospite prima di poter cominciare a replicarsi. Questo processo consente al virus di provocare infezioni latenti a lungo termine, sfornando migliaia di miliardi di minuscole copie di sé durante la vita dell’ospite. Finché il virus infetta solo le normali cellule del corpo, l’intrusione genetica termina con la morte delle cellule coinvolte. Il retrovirus che aveva infettato il protomammifero, tuttavia, riuscì in un’impresa rara e si intrufolò nei suoi spermatozoi o nei suoi ovuli. Quando quell’essere si riprodusse, trasmise il proprio dna con un piccolo bonus virale.
Di solito aggiunte evolutive di questo tipo sono dannose. Se qualcuno mi desse una chiave inglese o una spranga e mi chiedesse di colpire la mia auto, è abbastanza improbabile che la migliorerei dandole una botta a caso. A volte, tuttavia, le stelle si allineano. Le proteine aggiunte dal virus hanno fornito altre materie prime con cui la selezione naturale ha potuto armeggiare, portando alla comparsa di una delle caratteristiche più tipiche dei mammiferi. La placenta somiglia a un cuscino di carne che collega il feto alla madre, ma questo collegamento non era ancora completo. Una proteina retrovirale comparsa nel mammifero malato ha aiutato le cellule materne e fetali a fondersi in un unico strato, aumentando il trasferimento di nutrienti alla generazione successiva. Decine di milioni di anni dopo, il gene della sincitina non è cambiato e funziona ancora nello stesso modo.
Chiunque legga studi sulla selezione naturale è abituato a stupirsi delle stranezze dell’evoluzione. Certe specie di orchidea assomigliano a femmine di vespa per indurre i maschi a impollinarle mentre cercano di accoppiarsi con il fiore. Le piume di pavone e di altri uccelli rendono difficile la vita quotidiana dei maschi, ma sono anche irresistibili per le loro potenziali compagne. Alcuni tipi di cetrioli di mare respirano attraverso l’ano. Nel corso degli anni ero arrivata ad accettare che i miliardi di microbi che vivono dentro e sopra i nostri corpi sono una parte inestricabile della nostra biologia. Sapevo che la nostra capacità di resistere alle infezioni ha svolto un ruolo enorme nel modo in cui ci siamo evoluti. Ma la placenta? Qualcosa di così essenziale come la placenta esiste a causa di un virus? Questo fatto mi lascia ancora a bocca aperta. E la sincitina non è un caso isolato. Fino all’8 per cento del genoma umano proviene in realtà da retrovirus. “I retrovirus endogeni possono essere visti quasi come fossili che ci dicono qualcosa su come i virus hanno influito sul genoma degli esseri umani e di altri animali. Permettono di guardare nel passato”, dice Welkin Johnson, virologo del Boston college.
Gli scienziati hanno cominciato a capire che i virus dei nostri genomi non solo raccontano la storia dell’evoluzione umana, ma continuano anche a svolgere un ruolo in qualunque cosa, dal controllo delle infezioni alle sinapsi tra neuroni, dalle nostre prime ore come ovuli fecondati ai nostri ultimi respiri prima di morire. I virus, quindi, non sono solo infezioni temporanee. Non sono un’anomalia. Sono il nostro stato predefinito. Le ultime ricerche stanno dimostrando che gran parte della nostra biologia e fisiologia dipende da questi fossili genetici disseminati nei nostri genomi, e stanno cambiando il modo in cui pensiamo ai virus e a noi stessi. “I batteri hanno virus. Anche alcuni virus hanno virus”, afferma Aris Katzourakis, un virologo evoluzionista dell’università di Oxford. “I virus sono ovunque”.
Eredità virale
Gli scienziati si sono a lungo rivolti a topi, ratti e moscerini della frutta per rispondere a domande fondamentali sulla biologia. Negli anni sessanta anche i polli erano popolari oggetti di ricerca. Per prima cosa i pennuti erano facili da allevare e tenere in laboratorio. Inoltre la loro importanza nell’industria della carne rendeva la comprensione della loro genetica e fisiologia economicamente conveniente.
Affrontare questi aspetti non era solo un vantaggio per gli allevatori: la ricerca sui polli ha portato a importanti scoperte scientifiche. All’inizio del novecento un’anziana donna si presentò a casa di Francis Peyton Rous, patologo del Rockefeller institute for medical research di New York. Le sue mani nodose stringevano una gallina a cui era spuntato un tumore sul petto. Rous non fu in grado di salvare l’animale, ma il suo impegno per capire cosa lo avesse ucciso avrebbe portato alla scoperta di virus infettivi che possono causare il cancro. Il virus del sarcoma di Rous fu il primo di questo tipo a essere scoperto, ma presto se ne sarebbero aggiunti molti altri, tra cui il papillomavirus umano (l’hpv, responsabile del cancro della cervice), il virus della leucemia felina e le epatiti B e C (che negli esseri umani possono causare il cancro al fegato).
Questi virus e i tumori che causano sono trasmessi orizzontalmente, da individuo a individuo, attraverso il sangue o i fluidi corporei. La trasmissione verticale – dal genitore alla prole – invece non avviene. Quindi gli scienziati si aspettavano una trasmissione orizzontale simile per il virus della leucosi aviaria, che nelle galline causa la leucemia (il cancro dei globuli bianchi).
Negli anni sessanta gli agricoltori cercavano di allevare animali immuni alla leucosi aviaria. All’epoca Robin Weiss stava studiando i retrovirus e pensava che questo sarebbe stato un buon argomento per la sua tesi di dottorato allo University College London. Ma mentre studiava i meticolosi registri degli allevatori, Weiss notò qualcosa di insolito: il modo in cui i polli si ammalavano non sembrava dovuto a un’infezione, ma piuttosto a qualcosa di ereditario. Quello che aveva scoperto era il primo retrovirus endogeno, un gene virale che veniva incorporato nel genoma dell’ospite e trasmesso proprio come qualsiasi altro gene.
Quella scoperta segnò una svolta. Meno di vent’anni dopo i ricercatori avrebbero trovato retrovirus endogeni anche nel genoma umano. Mentre cercavano di decifrare i miliardi di A, T, G e C che fanno di noi quello che siamo, è apparso chiaro che gli elementi simili ai virus non solo non erano rari, ma in realtà costituivano quasi la metà del nostro genoma. Oltre al 10 per cento di dna proveniente da retrovirus endogeni, i ricercatori hanno trovato altri elementi di derivazione virale come trasposoni e retrotrasposoni (i “geni che saltano”) che costituivano addirittura il 44 per cento del nostro genoma. “Questi elementi spesso fanno a gara tra loro per replicarsi più rapidamente di quanto possano essere inattivati”, afferma Katzourakis.
McCoy aveva fatto l’equivalente scientifico di lanciare un piatto di pasta contro il muro e vedere cosa sarebbe rimasto attaccato
All’inizio gli scienziati hanno liquidato questi elementi come “dna spazzatura”. Qualsiasi sequenza un tempo funzionale aveva accumulato così tante mutazioni da diventare l’equivalente ereditario di un minestrone. I nostri cromosomi si erano semplicemente trascinati dietro queste coppie di basi, generazione dopo generazione, senza mai essere in grado di liberarsi di quei parassiti. Poi è arrivata un’altra scoperta casuale che avrebbe cambiato tutto.
Sette volte incredibile
Come ricercatore farmaceutico, John McCoy aveva un unico obiettivo: trovare le proteine e le molecole prodotte dalle cellule. Se queste erano collegate a certe malattie, sarebbe stato possibile curarle con un trattamento farmacologico. Poiché McCoy non stava cercando una proteina specifica, aveva fatto l’equivalente scientifico di lanciare un piatto di pasta contro il muro e vedere cosa sarebbe rimasto attaccato. Uno dei primi segnali che trovò fu quello di una proteina secreta dalle cellule placentari. Proprio allora gli scienziati stavano completando la prima bozza della sequenza del genoma umano, e anche se quei dati erano in grado di collocare il gene che codificava quella proteina placentare da qualche parte sul cromosoma 7, nessuno ne sapeva di più.
Anche per l’occhio allenato di McCoy, la sequenza genica era una serie incomprensibile di nucleotidi. Non gli diceva nulla su ciò che faceva la proteina. Per saperne di più fece una ricerca con il programma Blast, l’equivalente di Google per la genomica. Sperava che gli studi su topi, vermi o moscerini della frutta avessero trovato qualcosa di simile. In effetti la ricerca rivelò la presenza di geni quasi identici alla misteriosa scoperta di McCoy. Ma quei geni non provenivano da mammiferi e nemmeno da vertebrati. Provenivano da virus.
“Era un retrovirus”, dice McCoy. “E si esprimeva con successo nella placenta”. Accanto a esso c’erano altri due geni virali (noti come gag e pol) che avevano accumulato così tante mutazioni da essere quasi irriconoscibili. Ma quello era un gene retrovirale, che gli scienziati chiamarono env (un’abbreviazione della parola inglese “envelope”, busta), rimasto immutato. McCoy capì subito che il nostro corpo usava attivamente quel gene per fare qualcosa. E doveva scoprire cosa.
In un retrovirus la proteina env consente al virus di attaccarsi a una cellula ospite, fondendosi con la sua membrana e scaricandoci dentro il meccanismo virale. Dal momento che il gene scoperto da McCoy non era cambiato molto, il ricercatore sapeva che doveva fare qualcosa di simile negli esseri umani. Purificò la proteina e poi la aggiunse alle cellule umane coltivate in una provetta. Dopo averla lasciata lì per un po’, McCoy diede un’occhiata al microscopio.
Se i nostri enormi cervelli sono capaci di pensare è perché i virus hanno permesso ai neuroni di creare e rompere connessioni
I cambiamenti erano evidenti. Invece di uno strato di cellule separate ammassate insieme, McCoy vide una singola cellula piatta con migliaia di nuclei in un’unica membrana. Ulteriori esperimenti rivelarono che le forze della selezione naturale della placenta avevano spinto la proteina virale a fondere le cellule materne e fetali in uno strato chiamato sinciziotrofoblasto. McCoy chiamò la proteina sincitina, in riferimento alla sua funzione.
I suoi risultati erano sbalorditivi, quasi incredibili. Quando sottopose le scoperte a Nature, all’inizio la rivista le respinse, chiedendo altri esperimenti che McCoy non era in grado di eseguire. Ci volle più di un anno prima che il suo studio fosse finalmente accettato e pubblicato nel 2000. “Questo articolo ha ispirato molte altre ricerche ed è stato affascinante vederne gli sviluppi”, afferma McCoy.
Forse la parte più incredibile della storia della sincitina, dice Katzourakis, è che si è ripetuta diverse volte. Gli esseri umani sono portatori di due geni della sincitina, provenienti da due virus diversi. Nel complesso, gli scienziati ritengono che i mammiferi abbiano sviluppato una proteina della sincitina di origine virale almeno sette volte nel corso dell’evoluzione, con virus diversi che hanno dato origine a diverse sincitine e, di conseguenza, a placente diverse. E per non far sentire esclusi i portatori del cromosoma Y, alcuni scienziati francesi hanno scoperto che nei topi maschi la presenza della sincitina aumenta le dimensioni dei muscoli. È comprensibile, dice McCoy, dal momento che la costruzione della massa muscolare comporta una fusione di cellule non dissimile da quella che avviene nella placenta.
Se la sincitina fosse l’unico esempio dell’influenza dei virus sull’umanità, sarebbe comunque una cosa importante. Dal punto di vista evolutivo non c’è nulla di più cruciale della riproduzione. Ma l’influenza di questi retrovirus endogeni è più estesa e più sfumata di quanto McCoy avesse previsto.
Estinti e contenti
I primi segni della malattia sono difficili da cogliere, anche per un allevatore attento. Le pecore colpite cominciano ad ansimare e mostrano problemi respiratori. Questi sintomi possono indicare qualsiasi cosa, da una lieve infezione a una più grave. La malattia causata dal retrovirus jaagsiekte appartiene alla seconda categoria. Le infezioni non causano una polmonite, ma un cancro polmonare infettivo noto come adenocarcinoma polmonare ovino.
Come tutti i retrovirus, lo jaagsiekte si introduce nel genoma delle cellule che infetta. Può causare il cancro perché la proteina env che usa per entrare nelle cellule polmonari può anche provocare la replicazione incontrollata di queste stesse cellule. Dal punto di vista del virus, la rapida moltiplicazione delle cellule ospiti è come un buffet di bersagli vulnerabili. Per le pecore sfortunate, le cellule polmonari che si dividono in modo incontrollato significano il cancro.
Lo Jaagsiekte è trasmesso da un animale all’altro principalmente attraverso le goccioline che si formano durante gli starnuti e la respirazione, non diversamente dal comune raffreddore o dal covid-19. Ogni pecora infetta sviluppa il cancro separatamente a causa del virus che ha avuto la sfortuna di inalare. La malattia è incredibilmente letale, soffoca lentamente le pecore e le capre colpite. Per gli allevatori è diventato fondamentale identificare le pecore resistenti allo jaagsiekte.
Inizialmente i virologi hanno ipotizzato che quelle poche pecore che non si sono ammalate dopo l’infezione fossero portatrici di una mutazione che impediva al virus di scassinare la loro serratura cellulare. Ciò che hanno trovato nel dna di queste pecore resistenti, tuttavia, era una copia del retrovirus jaagsiekte stesso.
La versione endogena del retrovirus jaagsiekte rimane funzionalmente intatta, continuando a produrre copie attive del virus. E queste copie prodotte internamente proteggono l’animale dalla versione che circola all’esterno occupando la serratura molecolare che il virus usa per entrare nella cellula. Se un numero sufficiente di pecore lo eredita, questo gene potrebbe portare all’estinzione del virus.
John Coffin, un retrovirologo della Tufts university di Boston, sospetta che qualcosa di simile sia successo negli esseri umani. Anche se condividiamo molti retrovirus endogeni con i nostri antenati, alcuni elementi virali che contaminano il nostro genoma sembrano essere unicamente umani. Questi elementi appartengono a un gruppo noto come herv-k e herv-h (retrovirus endogeno umano) e, a differenza della maggior parte dei loro simili, non compaiono nei genomi di scimpanzé e bonobo, i nostri parenti più prossimi. Quindi l’infezione del genoma si è verificata nell’ultimo milione di anni.
L’infezione di questi elementi specifici degli umani, in particolare, è così recente (circa 200mila anni fa secondo gli scienziati) che, se viene attivato, il gene può ancora produrre una proteina virale funzionante. Ma quando i virologi hanno cercato di trovare i parenti del colpevole tra i retrovirus attualmente in circolazione, non ci sono riusciti. Non sembrava esistere niente di simile. Coffin sapeva che doveva esistere, altrimenti come sarebbe finito nel nostro dna? Secondo lui la risposta è che l’infiltrazione dell’herv-k nel nostro genoma ha segnato la fine della versione circolante del virus. “Potrebbe essere il motivo per cui non abbiamo più nessuno di questi virus che ci infettano”, dice.
Dal punto di vista evolutivo è stato vantaggioso per tutti. Gli esseri umani hanno ottenuto l’immunità dall’agente patogeno, e il virus ha potuto infettare con il suo materiale genetico ogni abitante del pianeta. Per Cedric Feschotte, virologo della Cornell university, è un altro esempio di come i virus continuino a plasmare la nostra fisiologia. Oltre a rafforzare la funzione immunitaria, uno studio del 2018 ha dimostrato che una proteina neuronale chiamata arc, presente nei moscerini della frutta e negli umani, ha avuto origine come proteina gag retrovirale. Negli animali l’arc regola la formazione delle connessioni tra neuroni, dette sinapsi. La plasticità sinaptica è la chiave della nostra capacità di pensare e formare ricordi. E i biologi hanno scoperto che, nelle ore successive alla fecondazione, le ondate di attivazione dei retrovirus endogeni sepolti nei nostri genomi contribuiscono a trasformare la semplice fusione di uno spermatozoo e un ovulo in qualcosa che può dare – e darà – origine a ognuna delle oltre quattrocento diverse varietà di cellule del corpo. Un articolo pubblicato dal laboratorio di Feschotte nell’aprile del 2024 su bioRxiv in attesa di revisione mostra che lo sviluppo non può avvenire senza l’attività di questi elementi virali. “Sono sorprendentemente indispensabili per alcuni importantissimi processi di sviluppo”, dice Feschotte.
Ma un pezzo di dna capace di produrre infinite copie di se stesso e di farsi strada a caso nel genoma può essere pericoloso. Se interrompe il gene sbagliato, come il retrovirus jaagsiekte o il virus del sarcoma di Rous, può provocare un cancro. Altri errori possono uccidere una cellula impedendole di svolgere le sue funzioni di base. Di conseguenza, la maggior parte degli animali tiene questi segmenti di dna lontani dal meccanismo molecolare che trasforma i geni in proteine. A volte, però, capitano degli errori. Le cellule vecchie o cancerose hanno più probabilità di avere retrovirus endogeni che sono trascritti attivamente. Questi frammenti virali sono innocui: non producono un virus infettivo e non possono replicarsi.
Ma questi pezzi di proteina sono ancora collegati alle loro origini virali e possono indurre il sistema immunitario a pensare che la cellula sia stata infettata e debba essere eliminata, un processo noto come mimetismo virale. Charles Spruck, biologo del Sanford Burnham Prebys medical discovery institute di La Jolla, ha scoperto che l’attivazione del mimetismo virale nelle cellule tumorali di topo le renderebbe bersagli ideali per i farmaci antitumorali e per il sistema immunitario. “Queste scoperte stanno cambiando il modo in cui pensiamo a molte malattie”, afferma Zsuzsanna Izsvák, biologa del Max Delbrück center, in Germania.
Cambiare prospettiva
A quanto pare il nostro sistema immunitario, le nostre sinapsi, le nostre placente e i nostri embrioni sono stati tutti forgiati dai virus. Mentre il mondo emerge dal caos provocato dal covid-19, questo contraddice direttamente il paradigma “i virus sono cattivi” al quale siamo abituati.
Le nostre discussioni sui virus sono piene di metafore marziali. Combattiamo con agenti patogeni che violano le nostre difese. Loro sono il nemico, e il nostro corpo deve sopravvivere ai loro attacchi. La mia email è piena di pubblicità di disinfettanti per le mani e purificatori per l’aria. Lo spray detergente che uso sui miei piani di lavoro afferma di uccidere il 99,9 per cento di batteri e virus. Se vogliamo restare vivi, allora virus e batteri devono essere morti.
Le migliaia di reliquie virali del nostro genoma raccontano una storia molto diversa. Se i nostri enormi cervelli sono capaci di pensare è perché i virus hanno permesso ai nostri neuroni di creare e interrompere connessioni. Gli esseri umani hanno usato le sinapsi per inventare qualsiasi cosa, dal calcolo matematico ai giocattoli. Certo, abbiamo raffreddori, disturbi gastrointestinali e meningiti, ma non saremmo in grado di occuparci dei virus senza l’aiuto di un virus. Nonostante la loro smisurata importanza, le lezioni di biologia dedicano poco spazio all’argomento. “Nei libri di testo non c’è un capitolo su questo. Parlano di come si sono evoluti i virus, ma c’è meno attenzione per come hanno influenzato l’evoluzione della vita”, afferma Johnson.
È una grave svista, concorda Feschotte. Il nostro passato virale è il ricordo permanente della nostra storia profonda, di come gran parte delle invenzioni dell’evoluzione siano emerse da cassetti biologici pieni di geni e proteine di riserva. “I virus sono il motore dell’innovazione genetica. Se vogliamo cercare una nuova biologia, dobbiamo guardare ai virus”, dice Feschotte. “Hanno bisogno di un ospite, ma stiamo scoprendo che anche l’ospite ha bisogno di loro”. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1582 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati