L’università moderna nacque nell’ottocento come parte della costruzione dello stato nazione. Wilhelm von Humboldt, fratello dell’esploratore Alexander e fondatore dell’università di Berlino (1810), ne è generalmente considerato l’ideatore. L’obiettivo dell’università humboldtiana era formare studenti impegnati a far progredire il sapere ma con una cultura nazionale condivisa, esperti di lingua, letteratura, geografia e storia tedesche. In altre parole, l’università doveva allo stesso tempo istruire e costruire la patria.
Analogamente, i primi stati nazione in America Latina considerarono l’educazione pubblica una priorità per creare una società civile istruita, in grado di prendere parte ai nuovi sistemi politici rappresentativi. All’inizio i governanti credettero che la chiesa cattolica, che aveva fondato le prime università e gestito tutte le scuole nel periodo coloniale, sarebbe stata un’alleata in questa impresa. Ma alla fine dell’ottocento la chiesa si era trasformata in una forte oppositrice del liberalismo politico. I governi latinoamericani allora promossero la laicizzazione dell’istruzione e fondarono università pubbliche amministrate dallo stato. In Messico il governo di Benito Juárez nel 1867 creò la Escuela nacional preparatoria, il primo sistema di istituti superiori del paese. Nel 1910 l’amministrazione di Porfirio Díaz fondò l’Università nazionale, che sostituì la Reale e pontificia università del Messico. La speranza era che la scuola preparatoria e l’università nazionale svolgessero un ruolo simile a quello che Humboldt aveva immaginato per l’università di Berlino: formare cittadini istruiti e fedeli alla nazione.
Come ben osserva la storica statunitense Joan W. Scott nel suo libro Knowledge, power, and academic freedom, c’è sempre stata una tensione tra i due obiettivi del progetto universitario moderno. Da una parte, formare gli studenti da un punto di vista accademico vuol dire favorire lo sviluppo di capacità critiche, strumenti di analisi e competenze di scrittura. L’accademia è una comunità che opera secondo regole, metodi e standard comuni per valutare la qualità, la pertinenza e i contributi di un’argomentazione, di un progetto o di un testo in riferimento a una determinata cornice disciplinare. Il suo fine ultimo è mettere in discussione e criticare le conoscenze in nostro possesso e cercare novità che consentano di far progredire il sapere.
Dall’altra parte, l’università pubblica è finanziata dallo stato, che si aspetta che la ricerca e l’insegnamento universitari contribuiscano al bene comune della nazione. I prodotti accademici, in questa prospettiva, devono offrire qualcosa di tangibile ai cittadini, alle istituzioni nazionali e alla politica pubblica. Di conseguenza lo stato cerca di esercitare la sua influenza su chi insegna e fa ricerca per assicurarsi che i soldi investiti nell’accademia generino i risultati che ritiene necessari. Le università diventano allora spazi politici in cui si discutono la natura dei contributi che gli universitari devono offrire alla società e la definizione del bene comune nazionale.
La tensione tra i due obiettivi è stata risolta in modi diversi nella storia contemporanea. In una conferenza sulla libertà accademica del 1991, Identity, authority, and freedom: the potentate and the traveler, Edward W. Said spiega che i governi postcoloniali arabi in paesi come l’Algeria e l’Egitto concepirono le università appena inaugurate come estensioni dello stato. Dopo aver vissuto a lungo sotto l’imperialismo britannico, francese e ottomano, i nuovi governi puntarono sul nazionalismo per difendere la cultura araba, un’idea che ben presto confusero con la difesa delle loro politiche. Mantenendo un controllo diretto sulle università, consideravano il personale accademico e amministrativo un gruppo di funzionari pubblici al servizio del potere. Quindi, “a guidare la promozione e la scelta dei dipendenti furono criteri come l’adesione politica invece dell’eccellenza accademica”.
In un ambiente carico di sospetto e paura per la guerra fredda e il conflitto arabo-israeliano, il controllo politico portò all’adozione di pratiche repressive, fino a quando “il nazionalismo all’università non fu più sinonimo di libertà ma di adeguamento, cautela e terrore; non di acume e coraggio per far progredire il sapere, ma di autoconservazione”. Secondo Said a quel punto il risultato fu la subordinazione degli atenei ai partiti al governo e la soppressione della vita intellettuale universitaria.
Anche in America Latina i governi del novecento furono tentati di usare le università per promuovere ideologie a loro affini e le loro versioni del nazionalismo. I governi postrivoluzionari messicani, per esempio, vollero che le scuole di tutti i livelli formassero gli studenti in accordo con il discorso nazionalrivoluzionario, per rispettare e promuovere gli ideali che, secondo loro, avevano motivato la lotta dal 1910. Nel suo periodo al governo, Lázaro Cárdenas riformò la costituzione, introducendo esplicitamente l’idea che l’istruzione pubblica dovesse essere socialista. Anche se quella riforma fu poi cancellata dal suo successore, i governi del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) venuti dopo fecero di tutto per reclutare e mantenere docenti e studenti nelle reti corporative del partito. Come denuncia Said a proposito del mondo arabo, questa situazione portò a dare la priorità “all’adesione politica anziché all’eccellenza accademica”.
È in questo contesto che si sviluppò il concetto di autonomia universitaria, difeso come il modo migliore per regolare il rapporto tra stato e università.
Chi definisce l’eccellenza accademica? Perché una prospettiva ideologica è dannosa per la ricerca? Non è forse vero che tutti i ricercatori hanno delle preferenze?
L’autonomia universitaria presuppone tre elementi chiave: una gestione dell’università indipendente dal ministero dell’istruzione e da qualsiasi altro organo statale; la partecipazione del corpo studentesco e di quello docente ai suoi organi di governo; e il rispetto della libertà di ricerca e d’insegnamento. Questo modello si diffuse negli atenei pubblici statali del Messico dopo la pubblicazione della legge sull’università nazionale nel 1945, anche se alcuni, come l’università di Guadalajara, non ottennero l’autonomia fino al 1990. Altre istituzioni pubbliche d’istruzione superiore, come l’istituto politecnico nazionale o i 31 centri pubblici legati al Consiglio nazionale di scienza e tecnologia (Conacyt), non l’hanno mai ottenuta.
Nel frattempo, negli Stati Uniti il corpo docente si difendeva dalle intromissioni esterne facendo appello al concetto di libertà accademica, che comprende la libertà d’insegnamento e di ricerca e il principio dell’autogoverno. In una “dichiarazione di princìpi” pubblicata nel 1915, l’associazione dei professori universitari sostenne che queste libertà erano fondamentali per assicurare che gli atenei rispettassero i loro obiettivi educativi e di ricerca. Solo la garanzia dell’“imparzialità” del corpo docente avrebbe potuto assicurare la fiducia dei cittadini e del governo nei confronti dell’operato universitario. In un primo momento l’associazione riuscì a proteggersi dai tentativi dei grandi donatori delle università private d’interferire nei programmi e nelle nomine dei professori. Dopo la seconda guerra mondiale la persecuzione politica di comunisti e socialisti promossa dal senatore repubblicano Joseph McCarthy approdò anche nelle università e nelle scuole pubbliche. Durante la presidenza di Donald Trump e ancora oggi, negli stati governati dal Partito repubblicano come la Florida e il Texas, ci sono pressioni politiche contro l’insegnamento della critical race theory (teoria critica della razza) e degli studi di genere.
Dalla situazione storica esposta fin qui emergono inevitabilmente delle domande: perché le università chiedono la libertà accademica o l’autonomia? Perché sostengono che l’intromissione dello stato (o degli interessi privati) le danneggia?
Said ha tracciato una risposta preliminare: trattare le università come se fossero delle appendici del governo finisce per privilegiare l’adesione e la lealtà politiche sull’eccellenza accademica. In altre parole, porta l’università alla mediocrità, facendo perdere legittimità agli insegnanti e alla ricerca. Come osserva l’associazione dei professori universitari statunitense, una studente che pensa che il suo professore non segua un criterio accademico autonomo non lo rispetterà e non vorrà studiare con lui. Allo stesso tempo, dare priorità alle posizioni politiche dei ricercatori significa che i contributi che l’università offre alla società e al governo, che siano consulenze o analisi, non solo saranno viziati ideologicamente, ma saranno anche di dubbia utilità per la soluzione dei grandi problemi nazionali.
Questa risposta preliminare richiede un approfondimento. Chi definisce l’eccellenza accademica? Perché una prospettiva ideologica è dannosa per la ricerca? Non è forse vero che tutti i ricercatori e le ricercatrici hanno delle preferenze politiche? Non è che insistere sulla libertà accademica è una misura difensiva da parte delle comunità accademiche, adottata solo quando l’interferenza arriva da governi con un’ideologia politica contraria alla loro?
Per rispondere a queste domande bisogna tornare al libro di Joan W. Scott citato prima. Le comunità accademiche sono disciplinari, nel senso che operano secondo norme e metodologie accettate da chi ne fa parte. L’eccellenza accademica è definita in riferimento a questa cornice. Anche se ogni disciplina ha sviluppato una sua prassi, il denominatore comune è l’idea del pensiero critico come motore della ricerca. Pensare criticamente significa mettere tutto in discussione, soprattutto gli argomenti dell’autorità: quelli religiosi e morali dei leader spirituali, quelli politici di un presidente o di una maggioranza parlamentare, il consenso raccolto da altri professori su un tema. Le domande mettono sempre in discussione le basi per accettare un’idea o un’ipotesi come sostenibili. In altre parole, verificano se ci sono prove scritte o orali, quantitative o qualitative, che permettono di giudicare convincente l’argomento proposto.
Il pensiero critico non assicura che tutte le opinioni siano ugualmente valide né che un’interpretazione debba essere adottata perché la sostiene qualcuno in particolare. Un’opinione legittima è accettabile se è basata sulle prove disponibili; e se le prove contraddicono quel che afferma un’autorità, devono essere considerate. Escludere deliberatamente degli elementi, ignorare domande ben fondate o fare appello a un’autorità come prova unica sono pratiche che limitano la ricerca e ostacolano la comprensione. Per questo sono dannose per il lavoro dell’università e lo rendono inutile, sia per gli obiettivi accademici sia per quelli politici che dovrebbero tradursi in benefici per la società. Non si tratta solo della libertà di pensiero critico, ma anche della definizione di questo concetto. Non ci può essere libertà se non si può mettere tutto in discussione.
È chiaro che la metodologia critica non è infallibile, e che chi la pratica non lo fa sempre con successo. Uno dei più famosi difensori storici del pensiero critico, Immanuel Kant, sosteneva che l’illuminismo occidentale poteva essere capito attraverso l’espressione sapere aude, “abbi il coraggio di conoscere”. Ma allo stesso tempo non aveva problemi ad accettare idee sull’inferiorità innata degli uomini non bianchi (per un certo periodo) e delle donne di qualsiasi etnia (per tutta la vita), anche se, nell’epoca in cui scriveva, non mancava chi denunciava i problemi posti da queste idee: per esempio il marchese di Condorcet e Mary Wollstonecraft. Qualsiasi esame dei dibattiti intellettuali del settecento rivela che l’impegno illuminista nei confronti dell’“uso pubblico della ragione” produceva spesso la convinzione che solo alcune persone dovessero avere questa facoltà, mentre altre avrebbero dovuto dedicarsi a compiti più affini alle loro capacità intellettuali.
Nonostante tutto, una formazione al pensiero critico apre sempre nuove strade. È vero che Kant, come molti illuministi, non ammetteva che le sue idee sulle donne fossero dogmatiche e prive di basi empiriche; è vero che gli imperialisti europei e statunitensi dell’ottocento e del novecento svilupparono le loro teorie sulla razza per giustificare il colonialismo rapace anziché spiegarlo. Ma il pensiero critico fornisce alle società gli strumenti per mettere in discussione i dogmi patriarcali e imperialistici. Non è una coincidenza se le prime femministe di qualsiasi parte del mondo hanno insistito sull’istruzione delle donne come il passo iniziale verso l’emancipazione. La femminista afroamericana bell hooks diceva che “l’educazione è la pratica della libertà”, proprio perché ci offre la possibilità di “conoscere oltre le frontiere di ciò che è accettabile”.
Come può testimoniare qualsiasi storica, non c’è niente di più liberatorio che imparare che le norme culturali (o qualsiasi altra cosa) accettate come naturali e immutabili nella nostra società sono prodotti storici in continua evoluzione. Interrogandoci sulle cause e sulle finalità di questa evoluzione storica, acquistiamo la consapevolezza di un mondo di possibilità non esplorate, ma ancora raggiungibili.
In sintesi, come spiega la filosofa statunitense Gayatri Spivak in Thinking academic freedom in gendered post-coloniality (1992), la libertà accademica dev’essere intesa come il processo di pensare criticamente. E quindi è un mezzo, uno strumento per interrogare la nostra realtà, non “un diritto formale inalienabile”. Ecco perché il ruolo di qualsiasi governo democratico rispetto all’università, soprattutto se si vuole progredire nella giustizia scientifica e sociale, non è pensare l’istruzione pubblica come uno strumento per allineare i cittadini alle azioni del potere né far fare a docenti e ricercatori studi solo sui loro argomenti preferiti. La sfida è come stabilire le condizioni perché la libertà accademica e il pensiero critico siano alla portata delle persone fuori dalle aule universitarie. Ci sono molte ricerche che possono aiutare a capire questa sfida. Intanto il primo passo dev’essere rispettare la libertà accademica e il pensiero critico nelle università. ◆ fr
Catherine Andrews ha un dottorato in storia del Messico alla University of St. Andrews, in Scozia, ed è ricercatrice del dipartimento di storia del Centro di ricerca e docenza economica (Cide) di Città del Messico. Questo articolo è uscito sul mensile messicano Letras Libres con il titolo ¿Por qué hay que defender la libertad académica?
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Questo articolo è uscito sul numero 1481 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati