“Rita, su, vieni a stampare la tua borsa prima della pausa”. Rita, un’adolescente dalle lunghe unghie blu, lascia il telefono, prende un sacco di tela di cotone sul quale verrà stampato un grande cerchio arancione e raggiunge Cira Maddaloni, insegnante d’arte, vicino alla pressa per le serigrafie. La ragazza, 13 anni, elegantissima, dispone con attenzione il disegno che sarà stampato, chiude la pressa e stende il colore sui motivi floreali che copriranno i sacchi. A vedere il suo sguardo concentrato dietro gli occhiali è difficile immaginare che, dall’inizio della crisi sanitaria del marzo 2020, si sia collegata alle lezioni online solo tre volte.
“L’insegnamento a distanza mi è proprio piaciuto, mi ha permesso di riposare”, scherza la studente di terza media. “La mattina non mettevo la sveglia e rimanevo a dormire”. Il suo sogno di cominciare la scuola da estetista dovrà aspettare ancora tre anni. I suoi amici vanno a scuola, lei no.
Tuttavia a Rita piace andare al corso di Maestri di strada, un’organizzazione non profit che si batte contro l’abbandono scolastico. Intorno a lei decine di sacchi di cotone stanno ad asciugare sui tavoli e sulle sedie. Altre quattro ragazze aspettano il loro turno. La settimana prima erano più di una decina e chissà quante saranno la settimana successiva.
Il corso di serigrafia si svolge in un’aula del “lotto G”. Così gli abitanti delle torri di Ponticelli, un quartiere alla periferia orientale di Napoli, chiamano la scuola abbandonata che l’organizzazione ha recuperato nel 2019. In cambio di un affitto molto basso, i professori l’hanno resa di nuovo operativa.
“È difficile lavorare in un cantiere, ma questo ci permette di costruire la scuola che vogliono i ragazzi, chiedendogli come l’immaginano e coinvolgendoli”, spiega il maestro di musica Irvin Vairetti, la cui voce viene ogni tanto coperta dal rumore della sega e del martello.
Vairetti ha deciso di parlare al suo gruppo sui gradini del cortile. È l’occasione per fare un bilancio delle cose fatte durante l’anno, tra cui “il rap della quarantena”, scritto, composto e filmato dagli studenti. “Partiamo dai loro gusti per lavorare sulle rime, sulla metrica, sulla poesia e così facciamo italiano e letteratura. E studiando il ritmo facciamo anche un po’ di matematica”, spiega Vairetti.
Un approccio che sintetizza bene la sfida dei Maestri di strada: proporre una pedagogia concreta, rendere i ragazzi attivi e non semplici recettori destinatari di nozioni. Gli insegnanti e gli educatori dell’organizzazione sono una cinquantina e la mattina sono presenti nelle scuole del quartiere per aiutare gli insegnanti. Questo gli permette di stabilire una relazione privilegiata con gli studenti per convincerli a seguire i corsi del pomeriggio.
Cesare Moreno è uno dei fondatori della onlus nata nel 2003. Fa l’operatore sociale nel quartiere dal 1983. Gli piace descrivere i Maestri di strada come dei professori che “scendono dalla cattedra per andare incontro agli studenti”. Già all’epoca nel quartiere c’erano grosse difficoltà sociali, economiche e un alto tasso di abbandono scolastico.
Ponticelli forma con due quartieri vicini (Barra e San Giovanni a Teduccio) il sesto municipio di Napoli, che spesso finisce sui mezzi d’informazione per i tanti arresti di camorristi o per i colpi d’arma da fuoco che si sentono la notte. Qui il tasso di disoccupazione sfiora il 40 per cento.
“In alcuni istituti professionali il tasso di abbandono scolastico è tra il 30 e il 60 per cento”, spiega Moreno, contando sia gli studenti che hanno abbandonato la scuola sia quelli che la frequentano saltuariamente. “Quando ho cominciato a lavorare nel quartiere l’abbandono scolastico veniva spesso attribuito alla povertà economica. Ma la realtà era diversa. I bambini di 8, 9, 10 anni non lasciavano la scuola per andare a lavorare”, ricorda. “La causa era soprattutto la povertà culturale, ed è così ancora oggi. L’effetto più evidente della miseria sociale è la chiusura in se stessi, l’assenza di sogni, d’iniziativa, che si trasformano in depressione”.
Mantenere un contatto
“Vogliamo far rinascere la voglia in questi giovani. Spesso sono completamente demotivati”, aggiunge Cira Maddaloni, mentre piega accuratamente i sacchi di tela stampati alla fine del corso. “Hanno interiorizzato l’idea di essere in un ghetto, molti di loro non vedono alcuna possibilità di cambiamento. Quando arriviamo in classe li chiamiamo tutti per nome e cognome, li incoraggiamo a creare. La motivazione comincia da queste piccole cose”.
I vari lockdown hanno peggiorato una situazione già difficile. L’Italia è uno dei paesi europei più colpiti dall’abbandono scolastico. Nel 2019, secondo Eurostat, il 14,5 per cento degli italiani tra i 18 e 24 anni ha abbandonato la scuola dopo la licenza media. Tuttavia il dato è poco significativo a causa della forte disparità tra il nord e il sud del paese. In Campania infatti la percentuale sale a quasi il 30 per cento. E la regione è tra quelle che ha tenuto più a lungo le scuole chiuse. “Ci siamo subito resi conto che bisognava mantenere il contatto con i ragazzi”, ricorda Moreno.
Dal 3 aprile 2020 i Maestri di strada vanno in giro per il quartiere e distribuiscono dei “pacchi di viveri per la mente” pieni di libri, quaderni e matite. L’organizzazione ha messo a disposizione tablet e computer per seguire le lezioni a distanza con il sostegno degli educatori. E i corsi del pomeriggio sono stati mantenuti.
Rispetto ai cinquanta, sessanta ragazzi dei primi tempi, l’onlus ne accoglie oggi duecento, dalle elementari al liceo. I Maestri di strada cercano di rimanere vicino agli studenti, di capire da loro dov’è finito un compagno di classe. “Non sempre è stato possibile. Chi aveva pochi legami con gli altri è diventato completamente invisibile”, si rammarica Marianna Napoletano, educatrice e coordinatrice dei corsi. All’inizio del 2021 un rapporto dell’ong Save the children ha lanciato l’allarme: secondo le sue stime 34mila ragazzi e ragazze rischiavano di abbandonare la scuola. Tra gli studenti delle superiori intervistati, quasi un terzo ha dichiarato che almeno uno dei suoi compagni ha abbandonato.
“Già sappiamo che a settembre alcuni non torneranno”, dice Cira Maddaloni. “E tra chi verrà in classe qualcuno lo farà solo per essere lasciato in pace dai servizi sociali”. Nel 2020 l’Istat ha stimato che 850mila studenti non avevano a casa né computer né tablet, e che il 45,5 per cento seguiva con difficoltà la didattica a distanza per la mancanza di dispositivi adatti in famiglia.
“Il problema non è questo”, dice Moreno, “ma il fatto che in casa non c’è un ambiente che aiuti la concentrazione e lo studio”.
Non è più la stessa cosa
Annalisa, 13 anni, e le sue amiche Claudia, Noemi e Celesta raccontano la loro giornata tipo: i problemi di connessione, la difficoltà per farsi spiegare quello che non hanno capito, il compito di inglese che tutta la classe ha restituito in bianco perché non sapeva rispondere alle domande del professore, la sveglia all’ultimo minuto, la spazzolata veloce ai capelli, il resto della giornata in pigiama, la madre che talvolta le chiama, i fratelli e le sorelle nelle stanze vicine o nella stessa stanza e un sottofondo di varie lezioni a distanza in contemporanea.
“Spero che i professori ne terranno conto, che saranno comprensivi e che si parlerà in classe di quello che abbiamo vissuto”, osserva Letizia, che frequenta la scuola secondaria di primo grado, pensando al ritorno in classe a settembre. Per Francesca, che preferiva seguire le lezioni da casa, il ritorno graduale a scuola è stato traumatico: “Non è più la stessa scuola di prima, non c’è più il contatto umano”. Lei che prima a scuola aveva “l’angoscia di essere osservata” , adesso sogna banchi uniti, volti senza mascherina, abbracci con le amiche.
“La scuola dovrebbe adattarsi ai grandi cambiamenti che hanno vissuto questi ragazzi”, dice Marianna Napoletano. “Hanno paura e l’idea di fare esperienze nuove gli mette ansia. È un’angoscia sociale che si aggiunge all’angoscia della scuola. Non sanno da dove ricominciare, anche solo osare avvicinarsi a qualcuno che gli piace”.
Ripensare la scuola intorno al legame sociale che permette è anche l’aspirazione di Moreno: “Durante questo periodo abbiamo moltiplicato i contatti umani invece di limitarli e ha funzionato piuttosto bene. Resta da capire se gli studenti sceglieranno di rimanere chiusi in se stessi o se, proprio perché ne hanno sentito la mancanza, cercheranno di fare più vita sociale e di avere più interazioni”. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1413 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati